Verrebbe la tentazione, che una lacrima di pudore consiglia solitamente di tenere a distanza, di esclamare che i due Nomi, del destinatario e del mittente della Lettera oggi in esame, appartengono a due scrittori tra i più grandi del Novecento italiano ed europeo. Dove l’eminenza del rafforzativo è nel richiamo alla scrittura: con Giacomo Debenedetti – dovremmo ormai convenirne tutti – si scardina quel diaframma che aveva resistito a sussulti secolari, non è più in discussione la supremazia del saggista o dello scrittore; nasce e si genera, a partire da alcune prove fondamentali (Sullo “stile” di Benedetto Croce, 1922, Proust 1925, Critica ed autobiografia, 1927, Il gusto dei primitivi, 1927, Verticale del ’37, Vocazione di Vittorio Alfieri 1944, L’avventura dell’uomo d’Occidente, 1946, Personaggio e destino, 1947; Probabile autobiografia di una generazione, 1949, Marcel Proust a patti con il diavolo, 1952, Presagi del Verga, 1954, Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario della nascita, 1955, Ultime cose su Saba, 1958, Commemorazione provvisoria del Personaggio-Uomo, 1965, Il romanzo del Novecento, apparso postumo nel ’71) una scrittura che fa adesione al mondo, lo permea e lo irretisce a sua somiglianza, proprio come abitava la bottega d’inverno il faber della poesia – Rimbaud, Mallarmé, Hölderlin, Stefan George, Paul Celan – la cui sillaba poetica non poteva prescindere o disgiungersi dalla sistemazione del sapere.
Cinquant’anni dopo la morte, Debenedetti attende di essere attraversato da una pulsione fenomenologica che tenti di evidenziare, nel raggio più ampio di estensione, quella manovra di appropriazione indiretta della verità delle cose che fa di colui che scrive, di colui che nella scrittura organizza il proprio asse di conoscenza, il soccorritore delle forme incompiute e presaghe: l’Ulisse che si inabissa nell’Ade per raccogliere e tramandare ciò che l’anima negletta ha messo in forma ma che per raggiungere il lettore o l’osservatore ha ancora bisogno che uno stile interposto, intercessore, la riveli.
Come aveva intuito Theodor Adorno, facendone poi pratica quotidiana della sua esistenza, il saggista è il vero eretico, colui che ha strappato il cielo di carta dei confini e dei generi, che cambia di posto incessantemente alla sua orchestra di idee concetti parole, si appropria di regole indeterminate che fanno sì che egli risulti credibile e “perentorio” in ogni stazione della sua viandanza. Ciò, naturalmente, ai massimi livelli, quando la forma-saggio trasfigura i connotati di una creazione d’arte, restituendola al mondo “compiuta” (vedi il caso Debenedetti-Tozzi, Debenedetti-Alfieri, Debenedetti-Pirandello, Debenedetti-Proust).
Insomma, parafrasando un fulminante apologo che l’attore-regista Jacques Tati rivolse al regista Robert Bresson negli anni ‘60, anche noi potremmo dire: “Perché rendere difficili o astrusi i nostri giorni? Abbiamo un genio in casa”. A cui avremmo augurato decenni di longevità, che ci lasciò invece nel ’67, un anno decisivo, sistematico preludio alle disgregazioni culturali dentro cui ancora oggi siamo adescati; da timido allievo di Benedetto Croce ne capitanò lo “scisma”, convinto che comprendere la storia letteraria del paese Italia, riconoscendone i presupposti nell’opera di Renato Serra o di Francesco De Sanctis, volesse dire narrare l’avventura dell’Uomo d’Occidente; il suo Proust fu infine l’apoteosi del farsi lettori-antagonisti di se stessi, mutando definitivamente l’antropologia del Soggetto, del Personaggio-Uomo, abbandonando la seduzione dell’infinita partita a scacchi autore-lettore cui Henry James ci aveva illusi.
Avrà forse Elsa Morante presagito, fin nella composizione di Menzogna e sortilegio, che lo stile di Debenedetti fosse il “nutrimento” precipuo – irrinunciabile – di cui la sua opera necessitava e che in virtù di tale “necessità” egli rappresentasse l’unico lettore per cui scrivere?
(«Non so ancora, Giacomo, se Lei perdona a questo mio romanzo di non essere un saggio, se cioè Lei crede che sia legittimo o no avere scritto una storia simile. Sua Elsa»).
Questi ultimi anni sono stati sotto alcuni aspetti “morantiani”, la bibliografia critica ha acquisito nuove tracce, nuovi indagatori (Graziella Bernabò 2012; Giovanna Rosa 2013; Marco Berdini 2014; Angela Borghesi 2015), la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, poi, ne ha fissato il percorso allestendo un’area permanente, curata da Giuliana Zagra, che consente di vagliare l’originalità e la specificità del ricchissimo Archivio-Laboratorio (Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante).
Rimane incompiuto, in un paradosso editoriale, l’ancoraggio dell’opera morantiana ne I Meridiani di Mondadori: i due volumi, curati da Cesare Garboli e Carlo Cecchi, usciti negli anni ’88-90, meriterebbero un doveroso aggiornamento, una nuova edizione andrebbe approntata, anche alla luce dei nuovi repertori, sorretta da un apparato critico esaustivo. Confidiamo che Renata Colorni saprà presto aderire a tale richiamo, allestendo anche per Elsa Morante lo splendido tributo che di recente la Collezione da lei diretta ha offerto a Thomas Mann, ritrovando alcuni capolavori in seconda traduzione italiana, definitivamente illuminati da un vastissimo commentario, per la cura eccelsa spietata minuziosa di Luca Crescenzi.
La lettera che segue è tratta dal volume L’Amata, Lettera di e a Elsa Morante, curato da Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra, che l’editore Einaudi ha pubblicato nell’anno 2012.
Roma 18 febbraio 1957
Caro Giacomo,
da quando è cominciata la Sua lettura di questo mio ultimo libro (che, non Glielo nascondo, è forse il mio prediletto) io mi sono promessa di non intervenire mai, nemmeno con una parola, in questa Sua lettura. Non soltanto per discrezione e rispetto verso il Suo giudizio, ma anche per una specie di avarizia: e cioè per non impoverire, con qualche mio intervento superfluo, la ricca verità che mi aspetto dalle Sue conclusioni. Sono certa, voglio dire, che Lei, come già altre volte in passato, saprà rivelarmi certe mie ragioni che a me stessa sono sconosciute. E ciò tanto più a proposito di questa mia storia di Arturo, della quale le ragioni (le mie ragioni di scriverla) mi sono sconosciute quasi tutte.
Se ora Le scrivo queste parole, è solo in risposta a quanto Lei accennò ieri sera riguardo all’intelligenza; non però per contraddirLa, ma solo per confessarLe che mi ha meravigliato la presenza (da Lei avvertita), in questo libro, della mia intelligenza, che invece, mentre lo scrivevo, mi sembrava esclusa e lontana. Le dirò dunque, su questo mio romanzo, la seguente unica cosa (e spero che non sia di troppo): e cioè che la sola ragione che io ho avuto (di cui fossi consapevole) nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata (non rida) il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo. Nel 1952, trovandomi, per la mia sorte, in uno stato definitivo di incompletezza e di solitudine, non vidi altra via che quella: di ritornare a una mia rimpianta condizione di ragazzo, che mi sembrava di ricordare. E sempre meglio me ne ricordavo scrivendola (perciò Le dicevo che mi pareva necessaria quella citazione di Saba: io, se in lui mi ricordo…). Mentre scrivevo questa storia, Glielo assicuro, non mi è mai accaduto (o almeno non me ne sono mai accorta) di dovermi richiamare alla mia intelligenza, ma soltanto, davvero, a una specie di memoria – E adesso, alla fine, mi trovo peggio che dopo quell’altro mio romanzo: giacché là si è trattato, alla fine, di uscire da una camera di favole. Mentre che ora, dopo questi anni di isola e di Arturi, mi trovo ricacciata nella mia attuale e irrimediabile condizione di donna – ormai, anzi, di vecchia.
Ecco, dunque, l’unica cosa che, onestamente, non vorrei nasconderle. E cioè che scrivendo quella storia io non intendevo altro se non quello che credevo di intendere: la mia necessità di scrivere, prima di essere minorata dall’aridità della vecchiaia, questi ricordi di un ragazzo che ancora aspetta la vita, e si innamora di tutti, e vede l’universo per la prima volta, nella sua primitiva freschezza. Per arrivare alla maturità deve passare attraverso diversi misteri, un po’ come Tamino nel Flauto Magico. Purtroppo, la vera maturità che stava ad aspettare, al di là di quei misteri, era poi quella della Sigra M. Ma lui, per sua fortuna, non lo sa.
Mi scusi, caro Giacomo, questo lungo discorso, che forse, nella sua vanità, vorrebbe infine servire a un altro scopo. E cioè: ricordo le sue parole: che il solo romanzo che a Lei sembri lecito, nei tempi odierni, il romanzo-saggio. Non so ancora se Lei perdona a questo mio romanzo, di non essere un saggio. Se cioè Lei crede che sia legittimo, o no, avere scritto una storia simile…
Grazie ancora di tutto, caro Giacomo. E spero di rivederLa presto – Sua
Elsa
(Aprile 2017)
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Buongiorno, avrei bisogno di sapere le pagine in cui questa lettera è citata: sto scrivendo una tesi su Elsa Morante e purtroppo non ho più tra le mani questo volume. Sarebbe possibile una cortese indicazione sulle pagine? Grazie infinite