In preparazione (autunno inverno 2024 2025):
“Diario di una rivelazione e di una crisi”
Conversazione con Bruno Monsaingeon
«C’è uno svitato negli studi di registrazione della Columbia ma tutti dicono che è assolutamente fantastico: si chiama Glenn Gould!». Inizia così l’ascesa irresistibile di un ragazzo di 23 anni che non voleva nemmeno farsi chiamare pianista, che suonava Bach con un’ampiezza sonora e una forza espressiva così dirompenti da intimorire finanche Artur Rubinstein, se è vero che dopo averlo ascoltato esclamò: «Se potessi rinascere, vorrei le mani di Glenn Gould».
Tante volte abbiamo udito esclamare: la musica classica si chiama così perché è morta e sepolta, sopravvive per volontà elitaria di pochi collezionisti. Ma se un giorno arrivasse un musicista desideroso di dimostrare che quella musica è parte viva e necessaria del nostro mondo moderno, molti rimarrebbero in silenzio ad ascoltare. Quel musicista è arrivato nel ’55, veniva dal Canada, portava in dote lo spartito delle Variazioni Goldberg di J. S. Bach, suonava il pianoforte seduto sopra una seggiola bassa e sgangherata, ereditata dal padre, posizionando gli occhi ad altezza tasti o altezza naso, mentre con la forza, la delicatezza, la mobilità delle dita affastellava un’incredibile gamma di arpeggi e variazioni. Ne scaturiva una musicalità che era soprattutto “suono”, la purezza consistente del suono: non il procedere da un suono all’altro suono, ma il cercare “tra” un suono e l’altro. Si chiamava Glenn Gould.
Una vita durata 50 anni, che si interrompe bruscamente la mattina del 4 ottobre 1982. Trenta anni or sono. Forse ancora pochi per definire la “statura” artistica e intellettuale (leggi anche: morale) di un uomo di musica, cresciuto per abilità tecnica e perfezione di “tocco” in seno a quella stirpe che si usa chiamare “esecutori” o “interpreti” – interpreti al pianoforte – ma che nella sua accezione è diventato molto altro: fare di uno spartito di musica – la musica delle origini – il pentagramma di un’avventura intellettuale e culturale che consegna il “suono” – la materia/suono – al divenire di un presente che ci attraversa e ci “abita”. Gould è riuscito dove altri grandi pianisti preferiscono non accostarsi: far sì che Bach – o Beethoven Brahms Mozart – non siano più malinconico sinonimo di “reliquia”, “vestigia”, “sguardo rivolto al passato”, ma sonorità dell’Oggi, accesso alla dimensione musicale e sonora del nostro tempo, del nostro esser-qui.
Agire su alcune convenzioni musicali per rovesciarle. Il pianoforte di Gould cerca una sonorità fuori dallo schema romantico-ottocentesco, rifiuta l’effetto e la suggestione emozionale, troppo prevedibile per quel pubblico museale che affolla le sale dei concerti, esclude le risonanze romantiche dal suo repertorio – Chopin o Schumann in primis – per privilegiare la costruzione e la consistenza del suono, ovvero la limpidezza e la trasparenza, il suono di cristallo, come se le strutture sonore dovessero, caparbiamente, essere “trovate”, scoperte, riconosciute nell’inesorabilità della “prima volta”. Sul piano esistenziale, poi, Gould incarna per paradosso un modello “genio-sregolatezza” che non conoscevamo: elogia il Nord come fucina di ispirazione, predilige i silenzi, i ghiacciai, il mare d’inverno, la solitudine del pensiero e della riflessione per trasformarla in domande urgenti sulla pratica artistica nelle società iperglobalizzate. Nulla a che vedere con l’antica casta del musicista-pianista in odore di sacralità permanente. La sua biografia materiale e intellettuale è inondata e governata da suoni e sonorità che si diffondono nell’universo-mondo con la forza e la consistenza dell’evento: “porzioni” di tempo e di spazio che si pongono e si impongono alla sensibilità dell’orecchio, per poi tramutarsi in parole, in immagini: ciò che potrebbe trovare ricognizione in un Drama-Portrait: un Ritratto biografico condotto su più dimensioni, che sveli le modalità di costruzione della sua parabola artistico-musicale e al contempo ne circoscriva gli esiti dentro il maniacale incedere degli anni e dei giorni.
Gould nasce in una modesta famiglia dell’Ontario, da un padre commerciante di pellicce e da una madre insegnate di pianoforte: a tre anni comincia a studiare lo strumento, lasciando che la lingua dei suoni preceda il linguaggio delle parole. È adolescente inquieto e irrequieto per motivi opposti rispetto ai coetanei: preferisce passare lunghe ore a meditare e a estrarre discorsi dai tanti pensieri che vagano nella sua mente. L’evento che segnerà la sua vita e la storia della musica pianistica del ‘900 avviene nel ’55: nello studio della CBS Corporation di New York, il ragazzo dotato di talento marziano registra le Variazioni Goldberg. Un miracolo. Sembra che Bach arrivi all’orecchio degli umani per la prima volta nella sua interezza musicale, e non da un clavicembalo ma da un pianoforte collocato dentro una delle più moderne industrie culturali. Quindi la turbinosa carriera pubblica, che evidenzia due date: maggio 1946, primo Concerto a Toronto; 1964, ultimo Concerto alla Orchestra Hall di Chicago. Il ritiro dalle scena fu già qualcosa di clamoroso: un pianista all’apice del successo, preceduto dal “tutto esaurito” per ogni esibizione, abbandona pubblico e critici, si allontana dalle scene per non raggiunta perfezione, per l’impossibilità di accedere all’esecuzione perfetta. Dal giorno dopo si trasferisce in Sala di Incisione e dà inizio al “romanzo d’amore con il microfono”. Accanto ai tecnici – pazienti, pazientissimi – e all’Ingegnere del Suono – amico fidato e scrupoloso – Gould lavora sulle imperscrutabili sonorità dello strumento, aggiungendo e levando, armeggiando con i filtri, modificando gli “alti” e i “bassi”: una sorta di incantesimo che nessun musicista-interprete aveva mai osato. La Sala di Incisione diventa “una dama di carità, collocata tra la fragilità della natura e la concezione ideale”.
Sul piano esistenziale, poi, i giorni di Gould sono soprattutto “notti”: durante le ore del giorno rimane chiuso e isolato in casa, tra spartiti e prove di esecuzione; di notte corre con la sua auto, nella quale ha fatto installare, precocemente, un radiotelefono, in modo da poter affrontare lunghe conversazioni con amici lontanissimi. Una solitudine davvero stravagante: appartato da tutti ma bisognoso nelle ore notturne di tradurre il silenzio in colloqui interminabili. Il catalogo delle “stranezze”, dei comportamenti estrosi, è cospicuo: salute cagionevole fin da piccolo, orecchio assoluto, prodigiosa memoria che gli consente di eseguire un qualsiasi spartito dopo una sola lettura, sonniferi contro l’insonnia, farmaci di tutte le specie che riempiono le valigie, doppi guanti, di lana e di lattice, a proteggere le mani, misantropia pervicace, chiesa protestante con appassionata lettura di teologi e filosofi della religione, il cappotto indossato anche d’estate, totale indifferenza al denaro, un battello a motore chiamato “Arnold S” (Schöenberg). A proposito, poi, delle “Goldberg Variations”, Gould fa in modo che si inseriscano nel palpito della leggenda: le incide una prima volta, come detto, nel ’55 e le incide la seconda volta nell’82, offrendo una interpretazione ancora più “analitica” della precedente. Quando abbandona quel pianoforte e quella sala sarà per sempre, morirà poche settimane dopo.
Chi ha avuto il buon senso di seguire negli anni le “variazioni” critiche che si sono affastellate intorno al suo nome, avrà notato che il dibattito non riguarda più l’eccentricità dei suoi comportamenti ma precise coordinate di ordine intellettuale, che proiettano il nome Glenn Gould verso le ragioni originarie del fare musica, dell’essere musicista oggi, la responsabilità o l’imperativo di essere artista, di fare Arte nel tempo dell’interpretazione. Soltanto alla luce di tale presupposto, i grandi temi suscitati dal suo pianismo acquistano nuova e risolutiva energia critica. Con Gould, attraverso Gould, si pone la questione musica pensata e musica eseguita, il contrappunto come autonomia, l’indipendenza delle “voci”, la spersonalizzazione dell’Io pianistico (proprio l’opposto cui il suo titanico Io ci aveva fatto intendere!). Prima di suonare, di attaccare il brano “scelto” e lungamente “cercato”, il pianista è chiamato a “meditare”, ovvero – volendo assumere questo verbo in chiave heideggeriana – deve esporsi sull’abisso della domanda, fare esperienza di “stupore”, dinanzi a una partitura che sa di “non riconoscere più”, di non poter e dover più riconoscere, malgrado le innumerevoli versioni in cui è stata “eseguita”. Percorso di ricerca, nel senso originario dell’esperire ciò che non è ancora “apparso”, Itinerarium mentis che insiste nell’esercizio del domandare: come interpretare, come restituire il non ancora scoperto, il non ancora conosciuto, di quella partitura? Forse proprio sostando, indugiando, nel fondo inesplorato del suono che ancora non c’è, assumendo come necessaria la ri-scoperta o la ri-scrittura. Mentre, intanto, nei nostri anni, l’interrogativo “post-moderno” rimane inalterato: Concerto pubblico o Registrazione in studio. A Bruno Monsaingeon che gli domanda: Non sente il bisogno del pubblico per suonare?, Gould risponde. “Niente affatto. Non c’è emozione più grande del suono creato dentro uno studio sigillato ermeticamente!”.
(2012-2017-2024)
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mi è piaciuto tantissimo l’efficacia della definizione di ‘assenza dell’io del pianista ma solo il risultato di una sua ricerca/studio musicale del brano’. mi pare una sintesi veritiera delle sue esecuzioni 😍👍