Ama raccontare un aneddoto, Bernardo Bertolucci: si trovava a Los Angeles per predisporre il cast del film Novecento e un amico lo informa che il regista Jean Renoir ha manifestato il desiderio di conoscerlo e incontrarlo.
Bernardo non crede alle sue orecchie: Renoir è stato l’idolo degli anni adolescenziali, l’autore di La règle du jeu (“La regola del gioco”, 1939), Une partie de campagne (“La scampagnata”, 1936) Nanà (1926) e altre indimenticabili opere.
Concorda all’istante un rendez-vous che avviene nella villa di Bel Air: «Seduto su una carrozzella, in mezzo ad un gruppo di chenzie, c’è Renoir. All’epoca doveva avere circa ottant’anni, per me era come parlare con mio padre. Aveva una visione del cinema assolutamente moderna, ancora perfettamente adeguata all’idea che i “Cahiers du cinéma” avevano così ben diffuso nel mondo, e cioè che il grande cinema oltre a raccontare una storia si interroga sempre sulla sua natura».
Non dissimulando una legittima, orgogliosa commozione, Bertolucci sottolinea questo aspetto: «Era molto bello quel momento, c’era Renoir seduto davanti a me e accanto a lui c’era un busto fatto da Auguste Renoir, il grande padre artista, a Jean bambino di cinque o sei anni. Erano quindi insieme l’uomo di ottant’anni e il bambino, e sorridevano tutti e due, identici, con gli stessi occhi».
Il 16 dicembre 2014, la “scena” si è riproposta, pressoché identica, nel Teatro Regio di Parma dove si è svolta la cerimonia di consegna al cineasta italiano della Laurea magistrale honoris causa in “Storia e critica delle arti e dello spettacolo”: se al dipinto che il pittore Auguste Renoir dedica al figlio accostiamo una fotografia di Attilio Bertolucci in posa accanto al primogenito Bernardo pochi anni dopo la nascita, ritroviamo in un solo colpo d’occhio la sorte di due cineasti investiti della medesima missione: il cinema – l’immagine cinematografica – come spirito e destino della propria individualità storica.
Spetta al padre-poeta Attilio iniziare Bernardo agli eventi che marchieranno il suo percorso di autore: dalla scoperta della poesia negli anni di scuola al mistero delle immagini che ancora bambino vede avvicendarsi sullo schermo del cineclub di Parma, che il padre ha fondato e gestisce insieme a Pietrino Bianchi, giovanissimo e brillante critico.
Il cineclub sarà la caverna platonica sulle cui pareti transitano le ombre che daranno stupore e sostanza al suo immaginario, con autori che si imprimeranno più di altri: Friedrich W. Murnau, Joseph von Stenberg, Max Ophuls.
Negli anni dell’adolescenza, dopo il sofferto trasferimento a Roma, Bernardo compone poesia occhieggiando verso lo scrittoio paterno, ma la sua impazienza è già fervida, in attesa di mutarsi presto nell’oltraggio cui è fatalmente atteso: sostituire al primato della parola poetica l’immagine cinematografica, scoprire il cinema come luogo dell’alternativa, che incide la fissità del reale per trasformarla, spezza il conformismo delle scelte e dei codici culturali, incaricandosi infine di prefigurare un nuovo orizzonte dell’agire politico.
Il resto lo farà il caso, disponendo con sagacia le pedine della futura affermazione: a cominciare dal viandante che un pomeriggio bussa alla porta di casa, dicendo di essere un nuovo inquilino dello stabile e chiedendo di parlare con Attilio:
«Una domenica, sul finire della primavera, dopo pranzo, vado ad aprire la porta della nostra casa in via Carini, a Monteverde vecchio. C’è un giovane con gli occhiali neri, il ciuffo un po’ malandrino, il vestito scuro della festa, camicia bianca, cravatta. Con tono fermo e dolce mi dice che ha un appuntamento con mio padre. Qualcosa di soave nella sua voce, e soprattutto quello che mi pare un travestimento domenicale, mi mettono in stato di allarme. “Mio padre sta riposando, chi è lei?”. “Mi chiamo Pasolini”. “Vado a vedere”. Richiudo, lasciandolo fuori sul pianerottolo. Mio padre si sta alzando, gli racconto tutto: ”Lui dice di chiamarsi Pasolini ma secondo me è un ladro, l’ho chiuso fuori”. Mio padre comincia a ridere. “Cos’hai fatto? Pasolini è un bravissimo poeta, corri ad aprire la porta!».
È arrivato a Roma da pochi giorni, Pier Paolo Pasolini, direttamente dal suo Friuli, portando dietro la mamma e la sorella. Hanno trovato casa nello stabile dove Bernardo vive con i genitori e il fratello Giuseppe: «Noi abitiamo al quinto piano, loro al primo. Ricominciai a scrivere poesie per poter bussare alla porta di Pier Paolo e fargliele leggere».
È Pasolini che indica a Bernardo ambiti culturali sconosciuti, che si fa mèntore di una formazione che associa i “ragazzi di vita”, tenutari di esperienze ancora da scoprire, alla pratica feroce di un set cinematografico – Accattone – dove si fronteggiano sacralità e paganesimo di un mondo che attende di conoscere “il tempo delle abitudini nuove”, per dirla con i versi di un poeta che i Bertolucci adorano, Umberto Saba.
Poi, negli anni immediatamente successivi, è ancora il caso, l’hazard in lingua francese, a trovare le soluzioni migliori per l’avvenire di Bernardo: «Dopo Accattone le cose sono andate molto rapidamente. Il produttore Tonino Cervi possedeva un soggetto di Pier Paolo di poche pagine, dal titolo La commare secca ma Pasolini stava già pensando a Mamma Roma e gli suggerì di far scrivere la sceneggiatura a me e a Sergio Citti. Citti e io scriviamo, Tonino Cervi ne è entusiasta e mi dice: “Tu credi che riusciresti a girare il film?”. E con totale irresponsabilità da parte sua e mia ci imbarchiamo in questa avventura».
L’investitura è dunque avvenuta, Bernardo può officiare il vangelo-cinema in prima persona, sentirsi il dominus di una troupe cinematografica che attende la sua parola risolutiva, gridare “motore” a 21 anni, avvertire il palpito visionario di Jean Vigo accanto al suo.
La commare secca (1962) e Prima della rivoluzione (1964) circoscrivono, alla stregua di due potenti segnali, l’avvio di un viaggio cinematografico che dovrà ad ogni passaggio render conto di un preciso dilemma: come far coesistere vocazione estetica e impegno politico.
Nella consapevolezza che entrambi, proprio per l’enigma storico che si va preparando e che culminerà nell’esplosione del ’68, sono lesti a precipitare nel contrario del loro significato originario, a perseguire quella problematica ambiguità che diverrà il nucleo psico-culturale nonché la cifra primaria del segno filmico di Bernardo Bertolucci.
«Non ho mai capito perché a un certo punto si debba fare uno stacco: quando, perché?»
Negli anni 64-68 la scommessa bertolucciana si va componendo e precisando: occorre, stilisticamente, creare un continuum di immagini che non sia soltanto il risultato dell’agognato piano-sequenza ma che abbia al suo interno la forza di rompersi e trasgredirsi incessantemente. Contro ogni promessa di prevedibilità, lo spettatore deve essere ammaliato sconcertato disorientato, deve parteggiare per un cinema che si possa amare e ripudiare al tempo stesso e dove finalmente egli possa non riconoscersi.
«In fondo non faccio altro che un’operazione critica, faccio il piano-sequenza e poi lo nego. E questo perché in generale trovo che si debba andare contro quello che si fa. Si fa una cosa, poi la si contraddice, poi si contraddice il contraddetto e così via», dirà a Maurizio Ponzi e Piero Silva nel ‘69, per la rivista Cinema&Film.
Una risposta efficace e audace verrà da Partner (1968), film di cui Bertolucci non conserva buoni ricordi ma che è il primo, profondo tentativo di programmatico ribaltamento delle convenzioni: un film che germoglia mentre lo si fa e mentre lo si vede, esibendo senza pudore la provvisorietà delle scelte, i mutamenti repentini della prospettiva ad ogni inquadratura.
«Nel 1968, il cinema era malato. Dopo quattro anni di attesa e di silenzio, quel film – Partner – era malato. Ho fatto un film che era soltanto un grido di vendetta contro i produttori e contro il pubblico. Di vendetta e insieme di paura. Il comportamento dello spettatore cinematografico di Partner dovrebbe essere quello dello spettatore ideale, cioè di uno spettatore molto passivo che riuscisse a trovare nell’ora e quarantacinque minuti di proiezione lo spazio per dormire almeno dieci minuti e durante questi dieci minuti sognare, vincendo così la propria passività».
Film che non prevede argini, perché Bernardo ormai sa che per vincere durevolmente la scommessa deve con maggiore insistenza e caparbietà gettare i dadi della sua forza creatrice, in modo da non porre ostacoli al suo dirompente senso del cinema.
«Quando ho girato Partner mi sono detto: devo fare un film in cui il montaggio non conta niente, a contare devono essere solo le inquadrature, ognuna di esse un piccolo film».
Mentre gira il suo primo film maudit, maledetto, Bertolucci ha definitivamente compreso che l’ispirazione che lo attende deve confrontarsi e fare i conti con un autore che in Francia sta rivoluzionando la storia del cinema, imprimendo una nuova, originale strategia di sguardo e di ispirazione.
Si chiama Jean-Luc Godard, è nato 11 anni prima e fa mostra di maneggiare le immagini con un realismo critico che trova sponde feconde in ogni particella del quotidiano. Ha inventato un cinema che si nutre delle pagine di cronaca, che intreccia storie con la realtà più spicciola, più periferica, disprezzando quel “naturalismo” che lo stesso Bertolucci ha più volte indicato come nemico:
«Bisogna riscoprire ogni volta il cinema partendo da zero. E il vero problema che i cineasti devono porsi è: cosa significa filmare? Propongo una legge che vieti il montaggio, o almeno che stabilisca che un regista non debba avere a disposizione più di venti tagli in un film».
A Godard basta un minimo pretesto – un questionario sulla gioventù (À bout de souffle, Fino all’ultimo respiro, 1959), un’inchiesta sulla prostituzione (Vivre sa vie, Questa è la mia vita, 1962), un’indagine sociologica sulla famiglia parigina (Deux ou trois choses que je sais d’elle, Due o tre cose che so di lei, 1966) – per accendere un gesto cinematografico culturalmente e politicamente impegnato, che valorizza per ogni inquadratura la bellezza, il fascino e l’intensità delle immagini: ciò che punge nel vivo la sensibilità acuminata del giovane Bertolucci.
La domanda che si impone è: come affrontare, come rispondere a quell’uragano di cinema, a quella suprema lezione trattenuta nelle iniziali JLG, che risolve in profondità il dilemma poetico e politico cui il cinema – tutto il cinema – è chiamato a render conto?
«Per un piano-sequenza di Godard mi sarei fatto uccidere», confesserà in un’intervista. La sua risposta verrà negli anni immediatamente successivi – il ’70 e il ’72 – con due opere che sotto certi aspetti muteranno le sorti del cinema italiano, dilagando insieme alla felice maturità di un regista divenuto ormai pienamente autore: Il conformista e Ultimo tango a Parigi.
Parafrasando l’adagio di Prima della rivoluzione, verrebbe da dire che soltanto chi negli anni ’70 celebrava orgogliosamente la propria giovinezza può intendere cosa significasse in Italia l’avvento del cinema di Bertolucci.
Per dirlo con la formula più breve, egli era “il” regista, a cui molti di noi guardavano con un’ammirazione che lambiva la devozione.
Ci addestravamo al senso del cinema riconoscendo il magistero della sua lezione: che cos’è un’inquadratura, come disporre il movimento dei personaggi nel perimetro della scena, come e quando forzare il ritmo di un piano-sequenza spezzandone la continuità, come avvolgere un attore e un’interpretazione di ironia carismatica: in definitiva, come essere “assolutamente moderni” in una stagione del cinema italiano che, soprattutto dopo la lezione rosselliniana, sembrava affievolita nella potenza, annebbiata nei risultati.
Basterebbe richiamare l’autorevolezza titanica dei due Attori-Personaggio del Conformista e di Ultimo tango – Jean-Louis Trintignant e Marlon Brando – per tracciare l’epopea dello stile bertolucciano: una volta immessi nell’inquadratura, irretiti nel movimento spaziale e temporale della vicenda storica, ciascuno acquisisce l’autorevolezza e la cognizione del ruolo, come è marcatamente riscontrabile nell’incipit dei due film.
La camera d’albergo dove Marcello Clerici-Trintignant prepara il delitto politico rivela immediatamente il magnetismo di un’immagine levigata e risplendente, che si compie nell’impeccabile incarnato della fotografia di Vittorio Storaro e nelle cadenze sinuose del motivo musicale di Georges Delerue.
Elementi che si ritrovano e si accentuano due anni dopo nel gesto disperato di Paul–Marlon Brando che urla la propria insensatezza sotto i bastioni della metropolitana di Parigi, prima di perdersi nel passo falso di un cartello Affittasi, nella medesima ora in cui Jeanne-Maria Schneider, ragazza in odor di matrimonio, si propone di visitarlo. Qui, la luce di Storaro e il percorso musicale di Gato Barbieri convergono per donare alle immagini quello splendore plastico che è anche la corrente ammaliatrice di cui lo spettatore conserverà acuta memoria.
Personaggi che vagano sul crinale inquieto della non-appartenenza, sotto il quale è sempre in agguato l’incompiutezza, l’ambiguità, il disorientamento: connotati esistenziali ai quali si affiancano, con la necessaria violenza e impetuosità, trasgressione, strappo, ribaltamento dei codici borghesi: la trama di Ultimo tango.
Non vanno comunque dimenticati gli squarci crudelmente ironici che strisciano di soppiatto nella costruzione espressiva di trama e personaggi, un dettaglio che d’improvviso devia il percorso o confonde le carte: esempio supremo quella vestaglia da camera che rende uguali e omologa nell’alienazione delle loro vite le figure di Paul e di Marcel, l’ex marito e l’amante in carica della donna morta suicida: Marlon Brando spalla a spalla con quel Massimo Girotti che fu l’indimenticato eroe di “Ossessione” di Luchino Visconti.
Un capitolo a parte meriterebbe appunto il lavoro sull’attore, ovvero la trasformazione che Bertolucci compie di ogni personaggio, autorevole e non, che finisca sotto il mirino della sua macchina da presa.
In primis Marlon Brando, che con Ultimo tango raccoglie la cifra stilistica più alta dell’intera carriera, ben più importante del cammeo “Colonnello Kurtz” di “Apocalypse now”, spesso citato come esempio della sua recitazione.
Lo stesso dicasi per Trintignant del Conformista, inarrivabile modello di quel carattere tragicamente ambiguo, quindi bertolucciano al più alto grado, che la sua maschera apparentemente immobile è in grado di accendere.
Sorte che si rinnova con eguale intensità di metodo nelle figure femminili, volti ideali per restituire il perverso disegno dell’ambiguità: in particolare Stefania Sandrelli, la Giulia borghese costretta a vagare e perdersi nell’Altrove, e Dominique Sanda, nel cui volto si ritrovano, compiutamente assimilate, bellezza e perfidia nel loro incanto sfuggente.
«Fabrizio di Prima della rivoluzione è l’impossibilità per un borghese di essere marxista. Egli cristallizza ciò di cui avevo paura quando facevo il film: la mia propria impotenza a essere un marxista-borghese. È un problema che non ho ancora risolto. C’è anche da dire che io volevo parlare con ambiguità. È importante guardare in faccia la propria ambiguità e cercare di superarla. Sono duplice perché sono un borghese, come Fabrizio nel film, e faccio dei film per allontanare dei pericoli, delle paure che ho, paura della debolezza, della viltà. Io esco da una borghesia terribile perché astutissima, perché ha previsto tutto e accoglie a braccia aperte realismo e comunismo. E questo liberalismo è evidentemente la maschera della sua ipocrisia».
Proprio queste parole, che Bertolucci pronunciava durante un dibattito della rivista “Cineforum” nel marzo ‘68, ci portano dritti a rischiarare il cuore, il nucleo incandescente, della sua poetica. Dentro cosa sono avvolti e inviluppati i suoi film se non, appunto, dentro questa ferita dell’ambiguità che il suo cinema ogni volta tenta di sanare? Da Prima della rivoluzione a Ultimo tango a Parigi impressiona il prisma problematico, acuito di insanabili contraddizioni, che i suoi personaggi e le sue trame sono chiamati a fronteggiare.
Personaggi che si offrono allo spettatore come soggetti smarriti e deprivati, alla ricerca di una perduta appartenenza (Fabrizio Barilli in Prima della rivoluzione), di un riscatto dalle prepotenze e violenze subite (Marcello Clerici nel Conformista), di una morte annunciata per aver ripudiato la trasgressione promessa (Paul di Ultimo tango): il “luogo” ideale che gli eroi-protagonisti del cinema di Bertolucci rincorrono e che anelano trovare è la zona di confine dove ogni carattere si fa incerto, equivoco, indefinibile, sempre che non si tramuti nel contrario, come l’omosessualità di Marcello Clerici nella Roma appena liberata dal fascismo, su cui grava una luce di tenebra che promette dissoluzione e decadenza.
Non c’è più una Verità protetta e conservata dentro un sistema di valori né un’Idea forte da conseguire: c’è un movimento di ricerca che scoperchia – espone alla luce del cinema – la bellezza e la rovina insieme, culminante nel titanico affresco dell’Italia inconciliabile e faziosa, irrimediabilmente divisa, di Novecento (1976) oppure nella tragedia nascosta dell’ambiguità incestuosa del rapporto madre/figlio (La luna, 1979).
Tra i tanti libri dedicati a Bertolucci, l’ultimo, in ordine di tempo e di importanza, è apparso pochi anni or sono, nel maggio 2010: si intitola “La mia magnifica ossessione”, è curato da Fabio Francione e Piero Spila, stampato dall’editore Garzanti, che è stato anche l’editore dell’intera opera poetica di Attlio Bertolucci nonché dei romanzi, saggi e scritti “corsari” di Pier Paolo Pasolini.
Il volume raccoglie un’ampia e ragionata raccolta di materiali – scritti ricordi interventi – che spaziano dall’anno ’62 al 2010, offrendo dunque uno sguardo pressoché definitivo su ciò che in quarant’anni di intensa attività l’occhio bertolucciano ha saputo indagare, svelare e narrare.
Un libro che, tra le numerose occasioni di scoperta e di confronto, accende una corda sentimentale su cui vale la pena soffermarsi: riguarda i “compagni di viaggio” di Bernardo, la panoramica di ritratti e sensazioni di amici e personaggi che lo hanno affiancato in questi decenni e che ora non ci sono più, segnalando un’assenza non risolvibile nel semplice ricordo.
Innanzitutto, il fratello minore, Giuseppe Bertolucci, anch’egli autore e regista di cinema e di teatro, scomparso nel 2012, a cui Bernardo è stato legato fin da piccolo e che ha costituito, per rigore e inflessibilità, “l’anima politica” di ogni suo progetto.
Poi Gianni Amico, che con Bernardo condivise le primissime esperienze, scrivendo a quattro mani la sceneggiatura di Prima della rivoluzione. E poi ancora la figura di rottura e di svolta che fu Franco Arcalli, detto Kim, il partigiano appassionato di cinema che “converte” Bertolucci alla religione del montaggio, mettendolo di fronte al miracolo della moviola ovvero alla “ricerca infinita” di nuovi accostamenti e scoperte sorprendenti.
Proprio sulla scia di questo libro mi interessa, nel finale, sfiorare un aspetto che è rimasto senza risposta e che riguarda Ultimo tango: una domanda, una questione, che resta a latere del film, sulla quale mi sono interrogato negli ultimi anni, percorrendo campi di dialettica critica che richiamavano, spesso involontariamente, la forza e la potenza di quelle immagini.
Si tratta di Georges Bataille, lo scrittore-protagonista di un pensiero filosofico tra i più alti ed estremi del ‘900, la cui ambizione si qualifica soprattutto nella volontà di portare alla luce la parte maledetta del nostro tempo e della nostra condizione moderna.
In diverse occasioni il nome di Georges Bataille è stato associato a Ultimo tango con l’intenzione di stabilire o richiamare riferimenti diretti, come se le intuizioni filosofiche di colui che ha scritto “L’esperienza interiore”, “Storia dell’occhio”, “L’erotismo”, “La letteratura e il male”, “L’azzurro del cielo”, costituissero l’arma segreta, il magma di ispirazione da cui origina lo “scandaloso” film di Bertolucci.
Possiamo considerare legittimo e provvisto di fondamento tale accostamento? C’è veramente una diretta connessione tra l’opera di Georges Bataille e quel prodigioso evento cinematografico? Nei materiali bertolucciani di mia conoscenza quel nome non appare. E anche nel libro appena citato, scorrendo l’indice dei Nomi, non si rinviene alcun riferimento.
Eppure, analizzare la potenza del pensiero di Bataille negli anni di gestazione del film significa studiare le forze in campo – culturali e politiche – che si confrontano severamente dentro una stagione di sovvertimenti che inizia negli anni ’30 e che non troverà mai tregua, proprio per il perdurare degli elementi di ambiguità che si generano tra diversi e contrapposti territori di appartenenza.
La filosofia esistenzialista di Georges Bataille, nel tentativo di tenere insieme Nietzsche, Freud e Marx, scopre e sviluppa una poetica intellettuale radicata nella divinità di Eros, che vuole strappare le cose alla “povertà” e frammentarietà del mondo reale (di cui, si badi, anche l’arte è espressione) e confinarle nella zona esclusiva dell’estasi, che diventa così perdita, spesa improduttiva, dépense, smantellamento del Sé, a cominciare dal proprio Nome.
Jeanne: Non so come chiamarti. Vuoi sapere il mio Nome?
Paul : No, no, stai zitta, non dire niente: io non voglio sapere come ti chiami. Tu non hai nome e io nemmeno: nessun nome. Qua dentro non ci sono nomi, non esistono nomi, capito?
(Dicembre 2014)