Ci sono stati anni, pochi per la verità, nei quali è parso che l’esperienza letteraria di Robert Musil potesse costituire una deflagrazione per il Lettore del Ventesimo Secolo, sospingerlo fanaticamente verso parametri di essenziale e assoluta primazia, alla stregua di traiettorie inattese e sorprendenti che il ‘900 stava già incidendo nell’effigie di scrittori come Proust, Kafka o Joyce, concentrando in particolare nel romanzo maggiore, nelle Tre Sezioni de L’Uomo senza qualità, il potenziale di novità sperimentale che avrebbe probabilmente – soprattutto nella lunga distanza critica – soverchiato e oltrepassato le occasioni precedenti, trovando proprio in quella avventurosa giustapposizione di codici, tra narrazione e saggio, tra racconto-fabula e riflessione, il connotato più prossimo, e forse imprescindibile, della nostra presunta, controversa “modernità”.
Non sorprenderà quindi un testo che tentasse, oggi, di tenere insieme, per meglio esibirle, la congerie di occasioni critiche che l’opera dello scrittore austriaco raduna, a volte raccogliendole indirettamente, con gesto sornione, come un pungiglione che il poeta-affabulatore ha preparato inattendibilmente e sorprendentemente, per meglio darsi statuto di ineffabilità; altre volte procrastinando sotto nuove insegne quel dominio della pluri-significanza che ha affascinato numerosi protagonisti del ‘900, insomma l’infinito intrattenimento o l’infinito dialogo che un capostipite della fenomenologia analitica come Maurice Blanchot aveva messo alla base del respiro ermeneutico.
Difficile anche nei nostri anni attraversare indenni l’espressione particolare che Robert Musil ha generato nella sua parola scritta, la volontà titanica che dilaga ad ogni tornante, pregna di una forza sovra estetica che è soprattutto risolutezza o attestazione di un “sistema”, un’opera circonfusa di strategica e inflessibile continuità, mai veramente messa in dubbio o in crisi, che si arresta dinanzi alla morte improvvisa, a Ginevra, il 15 aprile dell’anno ’42, proprio nei mesi in cui il romanzo-cardine, impalcatura di ogni ulteriore soluzione poetica letteraria e filosofica, è giunto al Capitolo 52 della Parte Terza, che secondo lo studioso Karl Dinklage può essere ritenuto la “fine intermedia del lavoro di tutta una vita”.
Con il primo risultato di estendere quel dato di infinitezza allo statuto primario della traiettoria musiliana: “Totalità e infinitezza” avrebbe potuto costituire un titolo degno del carattere del personaggio di nome Ulrich Anders, così come “Scrittura infinita” esibisce il diadema che dà lucentezza a ogni pagina del capolavoro, un prius da cui discende l’avventura nella realtà effettuale, nel groviglio di storie a cui i suoi personaggi-protagonisti sono chiamati a “prestarsi”, tesi già pronunciata dallo scrittore austriaco in un appunto diaristico dove è ribadita l’esigenza di scrivere senza rinunciare alle conseguenze che impone al pensiero moderno lo sviluppo dello spirito sottoposto alla pluralità delle conoscenze, di concerto con il concetto di una vita “sottomessa alla massima esigenza”, come trapela con ardore nel Capitolo 61 del romanzo: «Allora si pensava che forse si sarebbe potuto vivere esattamente. Che cosa significa? – ci si chiederà oggi. Una risposta plausibile sarebbe che ci si può immaginare l’opera di una vita consistente in tre trattati oppure in tre poesie o in tre azioni, in cui la capacità produttiva dell’individuo abbia toccato il massimo grado. Sarebbe dunque più o meno come tacere quando non si ha niente da dire; fare solo il necessario quando non si ha nulla di speciale da portare a termine; e, ciò che più conta, restare insensibili quando non si è in preda dell’indescrivibile desiderio di allargare le braccia e di venir sollevati in alto da un’ondata della creazione. Si obietterà che così cesserebbe la maggior parte della nostra vita psichica, ma tutto sommato non dovrebbe trattarsi di una perdita tanto dolorosa». (Ogni sottolineatura è di mia responsabilità, da qui in avanti).
Per aprire infine un “varco”, una conclusione inattesa, come si conviene al sagace ricercatore che voglia spingere all’estremo limite l’inatteso dubbio da cui è stato soggiogato : «Sarebbe un esperimento molto proficuo impegnarsi a limitare al massimo il consumo di morale che (di qualsiasi tipo essa sia) accompagna tutte le nostre azioni, accontentandosi di essere morali solo nei casi eccezionali, quando è assolutamente indispensabile, e in tutti gli altri casi considerando il proprio agire non diversamente dalla necessaria standardizzazione di matite o di viti. Certo, così il buono andrebbe riducendosi, ma si produrrebbe qualcosa di meglio: non resterebbero talenti, ma soltanto il genio; dal quadro della vita sparirebbero le insulse riproduzioni nate dalla vaga rassomiglianza fra le azioni e le virtù, e il loro posto verrebbe preso dall’inebriante comunione nella santità. In altri termini, ogni quintale di morale si ridurrebbe a un milligrammo di un’essenza che, perfino in un milionesimo di grammo, sarebbe ancora capace di ispirare una magica felicità. Si obietterà che questa è solo un’utopia. Certo che lo è. Utopia ha più o meno lo stesso significato di possibilità…».
Da Uomo senza qualità a “Uomo della possibilità”: entrambi civettano con la parola-chiave che vorrebbero annunciare, ovvero Utopia. Parola di cui al di là di tracce scolastiche avevamo smarrito la squisita familiarità, utopia come il luogo che non c’è o che non si trova, il cui raccordo è illustrato nel Capitolo 61, che porta questo titolo: “L’utopia dei tre trattati ovvero l’utopia della vita esatta”: «Utopia ha più o meno lo stesso significato di possibilità; il fatto che una possibilità non sia una realtà non significa nient’altro se non che le circostanze alle quali essa è attualmente intrecciata glielo impediscono, perché altrimenti sarebbe una vera e propria impossibilità; se però la sciogliamo da quell’intreccio e la lasciamo libera di svilupparsi, allora nasce l’utopia. È un processo simile a quello che si svolge quando uno scienziato studia la trasformazione di un elemento in un fenomeno composito e ne trae le sue conclusioni; utopia significa l’esperimento nel quale si osservano la possibile trasformazione di un elemento e gli effetti che essa provocherebbe in quel fenomeno composito da noi chiamato vita. Ora, se l’elemento osservato è la stessa esattezza, se lo si isola e si lascia che si sviluppi, se lo si considera un’abitudine di pensiero e un atteggiamento di vita, inducendo la sua forza esemplare ad agire su tutto ciò con cui entra in contatto, si arriverà a un uomo nel quale si manifesta una paradossale combinazione di precisione e di indeterminatezza».
Esattezza e indeterminatezza, precisione e indeterminatezza: l’apparato di conoscenze sopra il quale si imbastisce l’avventura esistenziale e morale di Ulrico-Ulrich, la polarità dialettica e specifica che consente a Musil di sperimentare e cercare fondamento nelle teorie “probabilistiche”, a cominciare dalla tesi di laurea del 1908 sullo scienziato-epistemologo Ernst Mach dove è affrontato il tema della “insalvabilità dell’Io“, primo approdo per rischiarare il disordine senza remissione del Giovane Törless e, conseguentemente, la costruzione simbolica nonché l’apprendistato del novello, novecentesco Wilhelm Meister.
L’uomo senza qualità è l’uomo disponibile, è l’uomo senza carattere, l’uomo senza particolarità. Il testo-chiave di Maurice Blanchot, anno ‘58, delinea alcune soluzioni di approccio e di lettura: «Il tema centrale, se è possibile indicarne uno in un libro essenzialmente bipolare, è rappresentato con esattezza dal titolo, Der Mann ohne Eigenschaften. Titolo difficilmente traducibile nella nostra lingua. Philippe Jaccottet, traduttore accorto, esatto, oltre che scrittore e poeta, ha indubbiamente pesato i pro e i contra. André Gide proponeva in forma divertente come titolo L’uomo disponibile. La rivista Mesures ha indicato con finezza L’uomo senza carattere. Io credo che valga la pena fermarsi alla traduzione più semplice e più vicina alla lingua tedesca, oltre che la più diretta e naturale in francese: L’uomo senza particolarità. L’espressione “uomo senza qualità”, sebbene di elegante suggestione, ha il torto di non restituire un senso immediato, di non far risaltare l’idea che l’uomo in questione non abbia niente che gli sia “proprio”: né qualità e ancor meno “sostanza”. La sua particolarità essenziale, dice Musil nelle note, è di non avere niente di particolare. È l’uomo qualunque, meglio, l’uomo senza “essenza”, l’uomo che non accetta di cristallizzarsi in un “carattere” né di fissarsi in una personalità stabile: l’uomo privato di sé stesso, che non vuole accogliere per sé, come elemento particolare e caratterizzante, l’insieme di “particolarità” che gli vengono da fuori e che quasi tutti gli esseri umani identificano ingenuamente con la loro pura anima segreta».
Varrebbe la pena soffermarsi su questo passaggio: non ci sono “anime segrete” da restituire alla luce del racconto, da dissotterrare o disvelare al lettore ancora “ingenuo” che attende il “colpo di scena”, il colpo d’ala, la “trovata” dallo scrittore in odore di feuilleton. E non ci sono anime “pure” nella scrittura musiliana, non foss’altro per il connotato di straniamento che l’uomo senza qualità pretende fin dalla riga del primo titolo (Dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla), ponendosi come supporto ad una scrittura che si vorrebbe in accordo con ipotetici o auspicati precetti di scienza applicata. Con cautela, Blanchot tenta di vedere in Musil lo smantellatore dei luoghi critici maggiormente in transito tra i dioscuri del Novecento: «L’uomo senza particolarità, che non vuole riconoscersi nella “persona” che è, per cui i tratti che lo caratterizzano non fanno di lui niente di particolare, mai apparentato a quello che gli è più vicino, mai straniero a ciò che gli rimane esterno, si vuole tale per un ideale di libertà, ma anche perché vive in un mondo – il mondo moderno, il nostro – in cui i fatti particolari sono sempre pronti a perdersi nell’insieme impersonale dei rapporti di cui non avvertono che la momentanea “intersezione”. Nel mondo delle grandi città e delle grandi masse collettive, è indifferente sapere se una tal cosa ha veramente avuto luogo o stabilire di quale fenomeno storico noi ci crediamo attori e testimoni. Ciò che ha avuto luogo rimane inconoscibile, o comunque accessorio o perfino nullo: il solo aspetto importante è la possibilità che sia accaduto così, in questo modo piuttosto che in un altro; contano il significato generale nonché il diritto a cercare questo significato non in quello che è, e che in particolare non è niente, ma nella estensione, nel catalogo delle possibilità. Quello che chiamiamo realtà è utopia (…) L’uomo senza particolarità non è una ipotesi che a poco a poco prende corpo. È piuttosto il contrario: una presenza viva che diventa pensiero, una realtà che diventa utopia, un essere particolare che scopre progressivamente come sua particolarità l’assenza, tentando finanche di assumersi come assenza, innalzandosi ad una ricerca che fa di sé un essere nuovo, forse l’uomo dell’avvenire, l’uomo teorico, che cessa infine di essere per essere autenticamente ciò che è: un essere soltanto possibile, aperto a tutte le possibilità».
Individuando l’uomo teorico, l’uomo-pensiero, l’uomo delle possibilità, come uomo dell’avvenire, Blanchot sembra indicarne il destino contemporaneo: «Quando apparve nel 1930 la prima parte de L’homme sans particularités, dubito che il lettore più ingegnoso potesse indovinare quale potesse essere il seguito. Leggeva con timidezza e stupore un romanzo di lingua classica ma di forma sconcertante, che somigliava in parte a un romanzo, in parte a un saggio, che evocava Wilhelm Meister, Proust, Tristam Shandy, perfino Monsieur Teste; da lettore sensibile apprezzava un’opera della quale percepiva la distanza, sebbene non cessasse di essere, per falsa apparenza, il suo proprio commento. C’erano tuttavia due certezze: la prima, che Musil descrivesse con ironia, freddezza e sentimento la caduta della Maison Usher, quella che custodiva le illusioni degli individui alla vigilia del 1914; l’altra, che il protagonista del libro, Ulrich, fosse un eroe dello spirito alla ricerca di un’avventura interamente intellettuale, cercando di vivere secondo i dettami dell’esattezza e la forza impersonale della ragione moderna».
Parrebbero i presupposti di una rivoluzione, di uno scardinamento o rovesciamento delle leggi “naturali”, in una parola, come togliere alla letteratura il proprio baricentro, come spogliare progressivamente e sistematicamente un personaggio dei propri attributi valoriali, degli aggettivi “di qualità” che lo avrebbero reso, un tempo, personaggio (“Personaggio-uomo”, nella felice definizione di Giacomo Debenedetti): già Törless era stato il personaggio da imbastire, da sospingere al centro del proscenio, come la Claudine de Il compimento dell’amore o la Veronica de La Tentazione di Veronica la Tranquilla (ciascuno, a suo modo, espressione del primato del sentimento assoluto), mentre Ulrich, al contrario, deve progressivamente “dileguarsi”, dismettere ogni “baricentro”, quindi fluttuare nell’indeterminatezza, nel campionario delle possibilità – o dei presupposti – senza mai trovare appoggio o sostegno nelle paratie convenzionali, in primo luogo, ça va sans dire, lirico-sentimentali. L’educazione di Ulrich, la sua formazione, sono votate alla strategia dell’impersonalità, i fenomeni cui va incontro o le scelte da compiere non devono mai essere o apparire di “qualità”, di “valore”, di volontà fustigatrice, mi verrebbe da dire, in modo da presupporre una realtà perennemente “imprevedibile”. Da qui l’aggancio al saggio di Jean-François Peyret, anno ’75, apparso sulla rivista Critique, con il titolo Musil o les contradictions de la modernité: «Ad alcuni è sembrato giusto leggere L’Uomo senza qualità, HSQ, come un romanzo di formazione (d’apprentissage). Ulrich come colui che intraprende una “ricerca”, la ricerca di sé (une quête de soi): l’eroe si accinge a compiere, secondo il rito “lukacsien”, il viaggio che forma la giovinezza, il viaggio dell’anima che “va per il mondo per conoscersi, cerca avventure per mettersi alla prova e attraverso le prove scoprire la sua propria essenza”. A partire da qui ogni cosa è permessa, il testo, il racconto, non esistono più. Qualche commentatore si è spinto oltre, è arrivato a dire che aveva compreso HSQ: non era né più né meno che il doppio fallimento di Ulrich, fallimento dell’azione sociale e fallimento della mistica della contemplazione. Ecco così scoperta la morale di una storia che non esiste! Errore esemplare di chi non vuole vedere la specificità del lavoro di Musil e il carattere perverso del suo testo. Nella ricerca di una forma romanzesca, Musil indica chiaramente in che cosa sovverte il modello tradizionale del romanzo di formazione, in che cosa quel modello non gli pareva più utilizzabile. HSQ assassina il romanzo di formazione e firma il suo crimine. Meglio ancora: cerca di costruirsi sul suo cadavere. Si veda Ulrich dopo il suo apprendistato: ha trentadue anni, la prima stazione dell’invecchiamento. Non va a conquistare il mondo; al contrario, torna a Vienna. Il romanzo comincia dove solitamente si chiude un romanzo di formazione».
Un testo, questo di Peyret, da leggere in contrappunto con il testo di Jacques Bouveresse, opportunamente denominato L’uomo senza qualità in un mondo di qualità senza uomo, che parte dal glorioso e appena citato annuncio dello scienziato-filosofo Ernst Mach nella sua Analisi delle sensazioni: “Das Icht ist unrettbar”, L’Io è insalvabile, che per Musil, come per altri intellettuali viennesi, aveva costituito una rivelazione decisiva: «I sarcasmi con cui Musil perseguita i cosiddetti rappresentanti dell’Anima nell’Uomo senza qualità non devono ingannare il lettore riguardo le intenzioni più profonde: il romanzo descrive il tentativo di salvataggio dell’Io sul terreno dell’etica. Ulrich è un uomo alla ricerca di una identificazione o di una specificazione “interiore”, raggiungibile con la riappropriazione “morale” delle sue qualità. L’assenza di qualità rivela la libertà costrittiva dell’uomo di fronte alle sue determinazioni, quindi il rifiuto di lasciarsi plasmare dall’esterno. Se Ulrich potesse diventare un uomo provvisto di qualità, sarebbe “un uomo che possiede le sue qualità non solamente per necessità naturali ma soprattutto perché le possiede moralmente”. È dunque un uomo che è, come il suo maestro Nietzsche, immorale per moralità… Sebbene possano apparire in discredito, oggi, le concezioni filosofiche ed epistemologiche di Mach, non è tuttavia possibile ignorare l’effetto liberatorio e stimolante che hanno avuto sulla creazione letteraria e artistica dell’epoca. La versione machiana del positivismo è divenuta in un certo senso la “filosofia dell’Impressionismo”. E anche se è evidente che Musil non può essere qualificato come “impressionista”, le sue concezioni filosofiche ed estetiche possiedono il carattere tipicamente antimetafisico, antisistematico e prospettivista, la flessibilità e l’apertura al cambiamento che si ritrova sia nella filosofia delle scienze di Mach che nella mentalità impressionista in senso lato. Ulrich è un uomo per cui il reale e il presente non sono niente altro che “ipotesi” suscettibili di essere rifiutati presto o tardi. Ulrich “odia segretamente come la morte i grandi ideali e le grandi leggi, non tiene alcuna cosa per decisa, nessun Io, nessun ordine. Poiché le nostre conoscenze possono modificarsi tutti i giorni, non crede a nessun legame, ogni cosa possiede valore soltanto fino al prossimo atto creativo, come un volto a cui si parla, che cambia in continuazione insieme alle parole».
È il connotato della imprevedibilità che si fa largo nell’imbastitura del romanzo, in consonanza con il discredito di alcune nozioni tradizionali e convenzionali, come le nozioni di sostanza e di casualità, così da rendere impossibile l’attribuzione di “proprietà” alle cose, alle azioni, ai personaggi. «L’universo materiale e morale – prosegue Bouverresse – si trasforma in un mondo di correlazioni e di combinazioni senza priorità di uno dei concetti sugli altri e senza limite per numero di concetti che è possibile fare entrare come elemento di valutazione perpetuamente instabile ed estensibile, e di conseguenza indefinitamente ambiguo… Ulrich crede che la distinzione tra le leggi naturali e le leggi morali sia divenuta sospetta. La sua teoria prevede che non ci siano “grandezze assolute” ma “principi funzionali”, come del resto dichiara il suo amico Walter: “Ogni azione cattiva apparirà come buona sulla base di determinati rapporti”. Soltanto il contesto possibile deciderà dell’opinione che egli ha su una determinata cosa. Niente è stabilito, tutto è suscettibile di trasformazione, costituisce parte di un insieme, di innumerevoli insiemi, che fanno parte di un super-insieme».
Ricollegandoci a Peyret, scopriamo che l’ordito concettuale prioritario è rivolto alla costruzione narrativa, alla imprevedibilità di ogni particella narrativa ereditata dalla tradizione e replicata indefinitamente: «Come per ironia, Musil si applica per deludere le aspettative del lettore di romanzi “realisti”. È a un intero universo semiotico che Musil si attacca, al commercio di significati che ne consegue… Guardiamo il modo in cui fa uso della descrizione, istituzionalmente attesa dal lettore, che vuole conoscere il ‘milieu’, l’ambiente, in cui vive e abita il personaggio. Invece che procedere ad una descrizione, Musil enuncia la problematica dell’Uomo senza qualità, ovvero la teoria del non poter scegliere nulla, in modo da sovvertire, per meglio criticarla, la vecchia formula dello scrittore realista: “Dimmi come sei sistemato e ti dirò chi sei”. Questa ‘elusione’, che ha valore teorico, lascia intravedere la rottura che Musil si propone di operare con la letteratura di rappresentazione, di riproduzione della realtà, conservando dal punto di vista dello spirito qualcosa di “fantomatico”. L’Uomo senza qualità non riflette affatto le contraddizioni che lacerano l’Austria-Ungheria degli anni 1910. In tal senso, è inutile attendersi una spiegazione di come si sia prodotta una tale ‘decadence’, la decadenza interessa molto poco Musil, non la considera terreno favorevole a sperimentazioni intellettuali: direbbe che le condizioni storiche e sociali non sono che condizioni dell’esperienza. Perché Musil non dubita mai che i fatti siano “interscambiabili”. Dire ad esempio, come egli fa, che i misteri del Dualismo sono per lo meno difficili da percepire che quelli della Trinità non va esattamente incontro ai criteri dell’illustrazione storica. Del resto, Musil ci aveva avvertiti: “C’è da accogliere con sollievo la promessa che né in questo capitolo né più avanti l’autore tenterà seriamente di comporre un ritratto storico e di entrare in competizione con la realtà”».
La Storia con la s maiuscola e la storia intesa come successione di eventi da utilizzare a fini di “rappresentazione” parrebbero riconosciuti da Musil come sostituibili e commutabili. Un azzardo problematico, che presumibilmente mira a negare la funzione della Storia come madre-levatrice (su questo verrebbe voglia di provocare Musil a proposito della totalità Arte-Storia, evocando il fantasma di Richard Wagner, nome che ricorre ampiamente nei Diari oltre che privilegiata evocazione di una delle protagoniste del romanzo, Clarisse, che per un intero capitolo si diletta a citare e gustare interi brani del Caso Wagner), fino a proporre da una prospettiva di tragica ironia una sorta di gioco-divertissement che prevede di interscambiare i due lemmi, Storia/storie, indicando con la s minuscola il catalogo di combinazioni e variazioni che le “storie-racconto” hanno vissuto e subìto nell’Atlante letterario del ‘900. È ancora Peyret a spingere verso questa latitudine: «Musil parte da un’ipotesi teorica semplice: lavorare la materia del racconto in modo tale che si possa trapiantare il non-narrativo sul narrativo. Impiantando la contraddizione tra narrativo e non-narrativo, tenta di oltrepassarla trovando una forma che sintetizzi i due elementi. Impresa dialettica… La contraddizione specifica di tale processo sarebbe dunque la contraddizione tra narrativo e non-narrativo, ovvero tra finzione e riflessione, dovendo necessariamente rimanere la finzione come aspetto principale della contraddizione, trattandosi comunque e innanzitutto di un romanzo… È in tal senso che andrebbe letto il Primo Capitolo del romanzo, intitolato Un capitolo dal quale significativamente non si ricava nulla. Un capitolo che assume un ruolo teorico critico e programmatico, a partire dalla celebre analisi metereologica che apre il romanzo. Leggendo il primo capoverso, appare che i due termini della contraddizione di cui sopra sono messi in evidenza: da un lato una spiegazione che ha tutti i crismi della scientificità, dunque non-narrativa: la depressione segnalata sopra l’Atlantico, l’anticiclone, l’isoterma eccetera; dall’altro, la formula più convenzionale che c’è per iniziare un racconto: Era una bella giornata di agosto dell’anno 1913».
Ora facciamo ritorno alla fonte, al romanzo-saggio, cercando in profondità i risultati messi in campo. Trasferiamoci nel penultimo capitolo della Parte Prima, numero 122, titolo Sulla via di casa, Ulrich sta rincasando, è “una notte bella ma buia”, “la via era deserta, come se l’inquietudine di prima si fosse ora lasciata alle spalle un profondo sopore”, “in quella notte si poteva avere la sensazione dell’accadere, come in teatro”, “ci si sentiva personaggi”, “come si può essere felici, pensò”. E prosegue: «Chi ha provato quest’impressione della propria persona che, avvolta in un istante trascorso di contentezza di sé, lo guarda da vecchie immagini come se un connettivo si fosse disseccato o staccato, capirà lo stato d’animo con cui Ulrich si domandò di che cosa fosse fatto in realtà quel connettivo… È una sorta di accorciamento prospettico dell’intelligenza, si disse, ciò che produce ogni sera questa pace, la quale, estendendosi da un giorno all’altro, crea la durevole sensazione della vita in armonia con se stessa. Perché, secondo la massa il presupposto principale della felicità non è quello di risolvere le contraddizioni bensì di farle sparire, come in un lungo viale spariscono i vuoti; e allo stesso modo che dappertutto si spostano i rapporti visibili, producendo un’immagine dominata dall’occhio, dove ciò che è incombente e vicino appare grande, ma più lontano anche l’immane sembra piccolo, i vuoti si chiudono, e infine tutto l’insieme subisce una bella allisciatura e arrotondatura, così anche i rapporti invisibili si spostano per opera della ragione e del sentimento, di modo che nasce inconsciamente qualcosa dove ci si sente a casa propria. Questo appunto è l’effetto – concluse Ulrich – che io non so ottenere in maniera soddisfacente».
Pare di vedere in filigrana lo sforzo titanico dello scrittore che lotta per ottenere dalla pagina scritta lo stato appena descritto: Ulrich-Musil afferma che la durevole sensazione della vita in armonia con se stessa dipenderebbe da un accorciamento prospettico dell’intelligenza, confessa di non sapere ottenere su di sé l’effetto di “sentirsi a casa propria”, di non raggiungere “gli istanti della contentezza”, quegli istanti impressionati in vecchie immagini, maturando la sensazione che “un connettivo si fosse distaccato o staccato”. Perderebbe così ogni scommessa il Lettore che non acconsentisse, in assoluta veglia di coscienza, a vivisezionare la materia di cui quella scrittura si è fatta specchio magmatico, echeggiando lo sberleffo ironico delle prime prove dove Musil si auto-definiva Monsieur le vivisecteur (1899): «Che cos’è Monsieur le vivisecteur? Forse il tipo del cerebrale dell’avvenire – forse? – Solo che tutte le parole hanno tanti significati secondari, doppi sensi, sensazioni secondarie, doppie sensazioni, che si fa bene a starne lontani… Ultimamente mi sono trovato un bellissimo nome: Monsieur le vivisecteur. Naturalmente è sempre una posa se uno inventa per sé un nome che suona così bene. La mia vita: Le avventure e i vagabondaggi di un vivisettore di anime all’inizio del ventesimo secolo! Monsieur le vivisecteur: Io».
Una delle prime cose di cui fa esperienza il “signor vivisettore” negli anni che lo separano da queste righe, dall’abbozzo identitario del Personaggio di nome Ulrich, autodefinitosi Uomo senza qualità (1919), è che il tempo, il fattore “tempo”, procede a balzi, per scosse telluriche, per improvvisi smottamenti, deprivato di quella articolazione-successione che aveva consentito alla letteratura di proporre accadimenti lineari, categorie di scopo, traiettorie conchiuse, di mettere in successione gli elementi del récit, consentendo al Lettore di dimorare, di “sentirsi a casa propria”. Ulrico-Ulrich, facendo sulla propria pelle esperienza di quel “niente” (da non trascurare che alla domanda di Clarissa “Un uomo senza qualità? E chi sarebbe?, Ulrich risponde con: “Un niente, proprio niente di niente!”), elimina l’aspettativa e l’ansia del “dopo”, la necessità di pensare in cronologia, di mettere in successione gli elementi – ciò che ha consentito alla forma-romanzo di perpetuarsi – aprendosi all’infinita possibilità, che significa operare a campo aperto, a getto continuo, nell’inesausta immanenza che si staglia come valore ed esperienza fondativa del regno della contemporaneità. Ancora il Capitolo 122: «Come uno dei pensieri apparentemente distaccati e astratti che così spesso nella sua vita acquistavano un valore immediato, gli venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: “Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro”. Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire “allorché”, “prima che” e “dopo che”! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco».
Confondersi con “la verità spaventosa e straniante dell’esistenza impersonale”, facendo “adesione” ad alcuni precetti scientifici, assecondando la “totale relazionabilità tra fenomeni”, guardando all’Uomo Matematico come “analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire”, presumendo di un Intelletto che “si spande all’intorno e appena tocca il sentimento, diventa spirito”: non c’è un punto preciso, rettilineo, dove collocare o ritrovare l’Inizio dell’itinerario musiliano, il grado zero della ricerca, della quête. Che è poi, del tutto semplicemente, la ricerca del Sé letterario, formula oggi astrusa, pronunciabile con difficoltà, forse “incomprensibile” alle generazioni ultime, una formula che tuttavia serve a sanzionare l’avvenuto passaggio, l’avvenuta trasmigrazione del Sé letterario nel Sé ermeneutico, quindi la loro vicendevole “declinazione”, certificando di fatto l’inesorabile aggancio tra Scrittura e sistemi di pensiero, tra Scrittura e sistematica dei “segni”, concetti-idee della cui comprensione trarrebbero giovamento proprio le generazioni che operano nei nostri anni, spesso smarrite nello sforzo ingenuo di concepire nuove creazioni – penso al cinema, al teatro, ai linguaggi dell’Immagine, oltre che alla pratica della Scrittura, al penoso appiattimento cui assistiamo, simile a una danza degli stereotipi, come se la lezione musiliana sia passata indenne oppure di essa si sia fatto tabula rasa. Dobbiamo forse, per sfuggire allo stereotipo delle ossessioni della “creatività” contemporanea – spesso esibite sulle rive notturne della violenza seriale o dell’erotismo compulsivo – augurarci l’avvento dell’uomo non “razioide”?
«La sfera non razioide è la patria del poeta, il regno della sua ragione. L’antagonista del poeta cerca il dato fisso, ed è soddisfatto se riesce a impostare un calcolo nel quale il numero delle equazioni è uguale al numero delle incognite che si trova di fronte. Qui invece le incognite, le equazioni e le possibilità di soluzione sono per principio infinite. Qui il compito è un altro: scoprire soluzioni, rapporti, connessioni, variabili sempre nuove; costruire dei prototipi che prefigurino il corso degli eventi; indicare dei modelli invitanti, che insegnino all’uomo come può essere uomo; insomma “inventare” l’uomo interiore».
Se nel fare letteratura, nel comporre “arte”, si preparasse il terreno propizio ad autentiche “sperimentazioni” di linguaggi, proponendoli con vigore sul tavolo delle ipotesi sperimentali, facendo “cantare” l’intelletto critico, innalzandolo a supremo garante della presunta compiutezza, allora le parole si tramuterebbero in conchiglie di veggenza.
«Al poeta si assegnò spesso il compito di cantare il suo tempo, di trasfigurarlo, così com’era, nella sfera accecante delle parole. Gli si chiese di innalzare archi di trionfo all’uomo “buono” e di inneggiare a nobili ideali. Si pretese da lui il “sentimento” e la rinuncia all’intelletto critico. Perché l’intelletto critico rimpicciolisce il mondo, privandolo della sua forma: proprio come il cumulo di macerie di una casa crollata su se stessa è più piccolo della casa che prima sorgeva. Si chiese, infine, al poeta (e questa fu la prassi dell’Espressionismo, simile in questo al vecchio neoidealismo) di scambiare l’infinità dell’oggetto con l’infinità delle sue relazioni e da ciò nacque un pathos metafisico del tutto fasullo. Queste richieste sono tutte concessioni all’elemento “statico”, sono in contraddizione con le forze della sfera morale, sono tutte incompatibili con il materiale della poesia».
Con un preciso appello finale: «Il poeta deve essere figlio del suo tempo, o deve essere il creatore dei tempi?».
Per assurgere a “creatore dei tempi”, il poeta interiorizzato che veste i panni di Ulrich-Musil – chiamato in prospettiva L’Uomo Interiore – deve far proprie alcune istanze che solamente una acuminata coscienza critica, alla congiunzione tra una vita “vissuta ipoteticamente” e la sensazione di “essere predestinato a qualche cosa” potrà donargli, come è nella sagace allusione del titolo del Capitolo 62: Anche la terra, ma specialmente Ulrich, s’inchina all’utopia del “saggismo”: «Dal tempo più remoto della prima autocoscienza giovanile, che spesso si ripensa più tardi con tanto turbamento e commozione, sopravvivevano oggi nel suo ricordo certe immagini altra volta amate, e fra queste la frase “vivere ipoteticamente”. Essa esprimeva ancor sempre il coraggio e l’involontaria ignoranza della vita, in cui ogni passo è un rischio senza esperienza, esprimeva il desiderio di grandi sviluppi e l’alito di revocabilità, che ogni giovane sente quando entra con passo esitante nella vita. Ulrich pensava che in fondo nulla di tutto ciò era da ritrattare. Un’eccitante sensazione di essere predestinato a qualche cosa è quanto vi è di bello e di unicamente certo in colui che contempla il mondo per la prima volta… Egli ne ha il sospetto: quest’ordine non è saldo come finge di essere; nessun oggetto, nessun Io, nessuna forma, nessun principio è sicuro, tutto subisce un’invisibile ma incessante trasformazione, vi è nell’instabile una maggior porzione d’avvenire che nello stabile, e il presente altro non è che un’ipotesi non ancora superata».
Come meritarsi la “predestinazione”? La risposta dell’Uomo senza qualità potrebbe riprodurre il connotato dell’Ispirazione (poetica): «E se a un certo momento crede di avere l’ispirazione giusta, si accorge che una goccia di fuoco inesprimibile è caduta sul mondo e il suo brillare cambia l’aspetto della terra».
È stato merito di Ferruccio Masini, in alcuni saggi composti negli anni ‘63-64, scoperchiare la voragine ermeneutica che teneva celate alcune finalità della scrittura musiliana. Per Masini, proprio il giovanile e a tratti ingenuo Monsieur le vivisecteur sarebbe il vero personaggio-paradigma della metafora intellettuale, “che costituisce l’articolazione fondamentale del romanzo nelle sue strutture significanti”, evidenziando il nervo sensibile del tema-problema, ovvero il processo di scomposizione e disgregazione cui soggiace la letteratura del Secolo XX. Che viene da Musil declinato in una variante inconsueta e trasgressiva, promuovendo una scrittura che si viviseziona e si parcellizza dall’interno, sfidando l’ordinamento dialettico e logico della lingua, azzardando nelle forme e nei significati il proprio smembramento, quindi esibendo in controluce una sorta di “fisiologia” del corpo letterario: «Un atteggiamento del tutto diverso è quello di chi oggi si sforza di tracciare nella scrittura narrativa o pseudonarrativa le coordinate di una carta nautica per un periplo temerario intorno a qualcosa che potrebbe forse anche essere la vita, se non fosse così inesplicabilmente estranea a colui che la vive, se non fosse così spietatamente attraversata da tanti interrogativi, da mettere in gioco qualcosa di più di un semplice destino personale. Dalla distruzione della capacità di parlare (qualcosa di fisiologico, come le corde vocali di un oratore per professione) scaturisce oggi il paesaggio sperimentale del romanzo dove – come ironicamente osserva Musil – quel che deve propriamente essere raccontato non è raccontato».
Un vasto e misterioso experimentum mirato a sovvertire alcuni parametri fondativi della struttura del racconto-romanzo, spalancando la vastità del raggio d’azione cui sarebbe destinato il nuovo “modello” che ne scaturisce. Seguiamo Masini: «Il termine “intellettuale” si riferisce al “luogo” dell’avvenimento metaforico o meglio al “campo” nel quale la produzione delle metafore si determina. Questo “campo” non è caratterizzabile in termini logico-deduttivi, analitico-normativi, univocamente astratti e non è quindi riconducibile a quella univocità che – dirà Musil – “come legge del pensiero e dell’agire domina sia nelle conclusioni costrittive della logica come nel cervello di un ricattatore incalzante passo su passo la sua vittima dinanzi a sé”. Al contrario in questo campo domina la stessa connessione delle rappresentazioni che si ha nel sogno e la metafora, quindi, altro non è che la stessa “fluida logica dell’anima”».
L’uso sperimentale dell’intelletto, del pensiero applicato in funzione estraniante, dove la metafora è messa in uso allo scopo di costruire e imbastire la direzione estraniante, l’allontanamento da ogni presunta “centralità”, evitando che alcun centro possa così compiersi e attestarsi, mentre, da canto suo, l’intelletto, operando di concerto, si ingegna per lasciar prevalere la metafora sul “concetto”, contribuendo alla funzione di “estraneazione”. In questo senso l’espressione metafora intellettuale vuol significare l’intelligibilità della metafora per quanto attiene non già la sua concettualizzazione bensì la modalità della sua struttura».
Una “espressione” che presuppone ineluttabilmente un diverso statuto dell’Io, dell’Io-autobiografico come dell’Io-Personaggio: la prospettiva dividente – l’ottica estraniante – diventa l’asse di ricerca primaria dello sperimentatore: «Per effetto di quest’ottica estraniante l’oggetto considerato, sia esso un insetto o il nostro stesso Io, si trasforma, perde i suoi dettagli personali, quella sua precisa caratterizzazione empirica che afferisce alla sfera empatica in senso lato, come a quella degli interessi pratici. “L’Io – scrive Musil ne L’uomo senza qualità – perde il significato che ha avuto sino ad oggi, quello di un sovrano che delibera atti di governo: impariamo a comprendere il suo divenire normativo… Poiché le leggi costituiscono l’elemento più impersonale che ci sia al mondo, la personalità sarà presto nulla di più di un immaginario punto d’incontro dell’impersonale”».
Trattandosi della radicale variazione dell’orizzonte verso cui l’afflato letterario dello scrittore era solito orientarsi, celebrando così la sorte di uno scrittore che procede per illuminazioni cerebrali, si perviene al saggio scritto da Musil nel 1913, L’uomo matematico, che la studiosa Bianca Cetti Marinoni, nella Introduzione al volume di Saggi e Lettere, edito da Einaudi nell’anno 1995 (oggi fuori catalogo, di cui attendiamo la doverosa ristampa), considera la “vera chiave di volta del suo edificio”: «Il matematico, che per mezzo dell’equazione funzionale o differenziale calcola il valore di una variabile, ponendola poi in rapporto con altre, e assegna quindi al valore un carattere non indipendente ma deteminabile in base al sistema di relazioni di cui fa parte, dispone di “una meravigliosa apparecchiatura spirituale fatta per pensare in anticipo tutti i casi possibili”… Questa illimitata disponibilità lo rivela al servizio non di uno scopo circoscritto ma di una “passione”: quella di verificare incessantemente i fondamenti della propria scienza, pronto a revocare la loro validità non appena i suoi calcoli gli rivelino nuove connessioni. Per questo il matematico è “un’analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire”: lo è per la totale apertura al possibile, priva di fini strumentali, che nutre la sua passione di scienziato puro, perché il giorno in cui questa si estendesse al campo morale si compirebbe quel fecondo interagire funzionale di intelletto e sentimento che del resto già si annida nella “passionalità” del suo operato».
Rilevante che alla fine del saggio citato, lo stesso Musil azzardi una precisazione di questo tenore: «L’intelletto si spande all’intorno, e, appena tocca il sentimento, diventa spirito. È ai poeti che spetta fare questo passo».
Un poeta che, come nota la Marinoni, è qui utilizzato prevalentemente in funzione di “modello”: «Non occorre, per questo, che egli scriva opere poetiche, né basta che le scriva – questo definisce il “funzionario”, non la funzione, poiché egli è definito dalla vocazione a sciogliere la sclerosi delle forme, e in primo luogo appunto di quelle forme primarie della percezione, irrigidite nella separatezza, che sono l’intelletto e il sentimento. Per questo il suo regno è lo spirito, che Musil non intende nell’accezione spiritualistica del termine, come un’entità trascendente, ma come totalità funzionale, il “luogo” dei rapporti vivi tra parti che trovano ciascuna la propria pienezza nello scambio reciproco. Proprio perché l’intelletto è una componente essenziale dello spirito, Musil può definire “conoscenza” l’attività del poeta. Non è il conoscere dell’uomo di scienza, vincolato al rigore logico e ai dati di fatto confermati dall’esperienza. Egli conosce piuttosto grazie a una ragione restituita alla sua originaria mobilità e affrancata da quella sua degenerazione strumentale che nel saggio è definita col termine “razioide”: la conoscenza del poeta si compie nella “sfera non razioide”, dove regna la variabilità delle forme di volta in volta ridefinite dalle loro mutevoli connessioni, poiché in essa “le incognite, le equazioni e le possibilità di soluzione sono per principio infinite”».
Ci pare, ora, di avere gli elementi disposti secondo un ordine preciso, messi al loro posto, con le funzioni loro riconosciute: le “nuove connessioni”, il “fecondo interagire funzionale di intelletto e sentimento”, l’intelletto che diventa “spirito”, la necessità di sciogliere la “sclerosi delle forme”, l’urgenza di liberare dalla “rigida separatezza” in cui si trovano le forme primarie della percezione – l’intelletto e il sentimento, quindi l’auspicio di una “variabilità delle forme”, di volta in volta “ridefinite dalle loro mutevoli connessioni”: capiamo così, al massimo grado, perché la lettura dell’opera musiliana, in particolare del romanzo mai compiuto – meglio: che non poteva essere compiuto – sia apparsa così ardua e di difficile decrittazione per il Lettore novecentesco, un’opera che per il molteplice carico di complessità, a volte incommensurabile per la mole di visioni sperimenti scopi, è opportuno, oltre che sensato, accostare alla Recherche di marca proustiana.
Oltre l’orizzonte dei “fatti”, dei “caratteri”, direi anche delle “idee” pescate sempre nel recinto dei “possibili”, nel marasma delle apparenti, convenzionali “trasgressioni” cui assistiamo nei tentativi dei nostri anni, oltre l’orizzonte insomma delle scappatoie autoriali più o meno liriche, più o meno sentimentali, si spalanca il terreno di una sperimentazione ad oltranza che non riconosce limiti spaziali, che guarda oltre gli “orizzonti” costituiti e collaudati ormeggiando nella baia dell’unico orizzonte consentito: il possibile. Ancora Ferruccio Masini: «È a questo punto che il ritrovamento di un orizzonte del possibile posto “oltre” l’orizzonte dei fatti fa coincidere ipotesi sperimentale e progetto utopico, dissolvendo le false equazioni dei grandi ideali, scompaginando la gerarchia del bene e del male, del “sopra” e del “sotto” divenuti – come diceva Musil – “membri di una funzione, valori che dipendono dalla concatenazione in cui si trovano”».
L’uomo “potenziale”, l’uomo del possibile, forgiato e circonfuso dentro un “sistema infinito di connessioni”, l’uomo musiliano inteso come “sostanza colloidale che si adatta alle forme, non le plasma”, l’uomo “matematico”, divenuto “analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire”, che esercita la totale apertura al “possibile” e sfruttando la categoria del possibile in modo “antieconomico”, privandola cioè di scopi strumentali, pronto tuttavia, in ogni momento, a revocare la validità – dunque, la qualità– dei fondamenti della propria scienza, non appena i suoi calcoli gli rivelino nuove connessioni: «Tutti gli avvenimenti morali si svolgevano per Ulrich in un campo d’energia la cui costellazione li colmava di significato, ed essi contenevano il bene e il male come un atomo contiene le possibilità di combinazioni chimiche… In tal modo si formava un sistema infinito di connessioni, in cui significati indipendenti, come quelli che la vita comune attribuisce con grossolana approssimazione agli atti e ai caratteri, non esistevano più; ciò che appariva saldamente stabilito diventava un comodo pretesto per molti altri significati, l’avvenimento diventava il simbolo di ciò che forse non avveniva ma si sentiva profondamente, e l’uomo come compendio delle sue possibilità, l’uomo potenziale, la poesia non scritta della sua esistenza, si contrapponeva all’uomo come opera scritta, come realtà e carattere».
L’uomo del possibile non può che “cercare” uno scrittore che sappia ritagliare “forme” a lui congeniali, a lui transustanziali, dove ogni cosa possiede valore soltanto fino al prossimo atto creativo e dove “il particolare oscura l’intero e si sviluppa a sue spese”. Ancor di più la nuova fenomenologia dell’uomo della “possibilità” prevede che: «Il valore di un’azione o di una qualità, anzi persino il suo carattere e la sua natura gli sembravano indipendenti dalle circostanze che l’accompagnavano, dagli scopi a cui servivano, in una parola dall’insieme variamente costituito a cui appartenevano. Del resto, questa è soltanto la semplice descrizione del fatto che un assassinio ci può apparire come un delitto oppure come un’azione eroica, e l’ora d’amore come la penna caduta dall’ala di un angelo oppure di un’oca».
La “penna caduta dall’ala di un angelo” appare, senza troppe dissimulazioni, un diretto tributo al poeta di cui Musil ha contribuito a tramandare l’immortalità, offrendo contributi appassionati alla dinastia della sua parola poetica, Rainer Maria Rilke. All’indomani della morte, nel Discorso di commemorazione che ebbe luogo il 16 gennaio 1927 al Renaissancetheater di Berlino, lo scrittore esordì con queste parole: «La prima cosa che mi venne in mente, per rispondere alla domanda “come mai oggi ci troviamo qui?” fu, lo confesso apertamente, questa: perché vogliamo onorare il più grande poeta lirico che i tedeschi abbiano avuto a partire dal Medioevo!… Quanto più un’epoca è rigorosa nell’attribuire il nome di poesia, tanto minori saranno le distinzioni che accetterà all’interno di ciò che si chiama così. Ma la nostra epoca nell’attribuire il nome di poesia è assai tollerante. In certi casi le basta semplicemente che papà sia un poeta… Rainer Maria Rilke non era fatto per la nostra epoca. Questo grande lirico non ha fatto altro che portare alla perfezione, per la prima volta, la poesia tedesca. Egli non è stato il culmine della nostra epoca, ma una delle cime dalle quali il destino dello spirito spicca il volo da un’epoca all’altra… Rilke appartiene al contesto secolare della poesia tedesca, non al contesto del giorno».
E Ferruccio Masini, nel saggio Alchimie del ‘possesso’, illuminando le “oscure suggestioni mitico-ancestrali” del suo dettato e rivendicando il “rapporto privilegiato del poeta con l’essere delle cose”, ci ricorda che «l’opera di Rilke si lega, per più di un verso alla storia delle avanguardie, accampandosi con pieno diritto sulla rottura, tutt’altro che innocua, tra esistenza e significato, tra un mondo di cose e un mondo di segni. Ogni tentativo di ricomposizione che non voglia risolversi in un arretramento di fronte alle contraddizioni reali che hanno determinato quella rottura, non potrà essere che una reinvenzione di significati, una avventura – direbbe Musil – “all’orlo del possibile”».
Ma Rilke è anche la figura-effigie della sicura congiunzione con una istanza sotterranea che l’opera di Robert Musil trattiene nel vestibolo delle argomentazioni, una “domanda” che sibila – sempre e comunque – nel contesto seppur vago e indefinito delle “avanguardie” che ogni epoca storica consegna ai propri lettori-spettatori: Quando accade il presente? Domanda che compare ugualmente come titolo e questione risolutiva in un saggio di Claudio Magris contenuto nella raccolta L’anello di Clarisse (1984): “Quando è il presente?”: Rilke di fronte e dietro le parole. «Il mondo moderno – scrive Magris – non conosce l’identità di essere e parola, sulla quale in origine si fonda ogni conoscenza ed anche ogni religione e poesia: la rete di somiglianze e di analogie, che permetteva di afferrare l’essere nella parola, si è allentata e sciolta, abbandonando le cose a un’enigmatica e insondabile essenza e le parole a un’orgogliosa, tautologica funzione di mero autoriferimento».
Il saggio su Rilke fa da prologo al poderoso testo che Magris dedica a Robert Musil nel medesimo libro, effigiando un titolo – Dietro quest’infinito: Robert Musil – che accoglie la parola “infinito” proprio per segnalare il capovolgimento di prospettiva con cui essa viene restituita dalle nuove argomentazioni, la “direzione” verso cui si indirizza l’interprete o l’agens-creatore se volessero percorrere il sentiero, inesplorato, delle “possibilità”. Basta seguire il percorso disegnato da Magris per ottenere in breve tempo la linea di sviluppo che la parabola musiliana dispiega nella sua sorprendente estensione. Se si accoglie il precetto che il romanziere tratta la realtà “come un compito e un’invenzione”, negando “ogni proposizione all’indicativo, ossia ogni asserzione definitiva e assoluta, a favore del congiuntivo, del senso delle possibilità”, si giunge alla linea di condotta portata avanti da Musil: «Chi possiede il senso delle possibilità non dice, ad esempio, qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere, ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa: e se egli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe esser anche diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è».
L’accadere del presente è dunque l’accadere della parola-realtà, della “parola” capace di sanare la lacerazione tra esistenza e significato, tra un mondo di cose e un mondo di segni. È anche il tagliando d’accesso per l’“altro stato”, dove ha sede “il nucleo più profondo dell’arte”, dove “il bene e il male sono semplicemente soppressi” e dove – soprattutto – le “cose” non sono paragonate ad altre, diventando metafore di quelle, ma sono riconosciute “uguali ad esse”: nuovi presupposti analitici, nuove frontiere di significato di cui Musil traccia i connotati nel saggio Spunti per una nuova estetica: «Tutti i mezzi espressivi dell’opera d’arte affondano le loro radici in condizioni culturali assai remote e, presi nel loro insieme, hanno questo significato: essi creano una corrispondenza di tipo non concettuale e un rapporto diverso da quello normale fra l’uomo e il mondo… Il nucleo più profondo dell’arte è un altro atteggiamento rispetto al mondo… Esso è stato indicato con molti nomi, fra i quali esiste però una vaga concordanza. Stato dell’amore, della bontà, del distacco dal mondo, della contemplazione, della visione, dell’avvicinamento a Dio, dell’estasi, dell’assenza di volontà, della meditazione: così è stato chiamato; e secondo molti altri aspetti di un’unica esperienza fondamentale che ricorre, con gli stessi tratti, nella vita religiosa, mistica ed etica di tutti i popoli storici… Ogni volta troviamo che esiste un altro mondo, una specie di immobile fondo marino, dal quale si sono ritirati i flutti irrequieti del mondo consueto. Nell’immagine di questo mondo non esistono né misura né esattezza, né scopo né causa. Il bene e il male sono semplicemente soppressi, senza che sia necessario esimersene. E a tutti questi rapporti subentra un confluire del nostro essere con l’essere delle cose e degli altri uomini che si gonfia e si placa misteriosamente».
Il dissidio che Magris vuole porre in evidenza – attraversando Rilke, Musil, e prim’ancora la lancinante Lettera di Lord Chandos, scritta da Hugo von Hofmannsthal nel 1902 – si colloca appunto nel rinnegamento o nell’infrazione di quel percorso di senso che scandisce la sorte delle avanguardie classiche del Novecento. Il non riconoscere più la “corrispondenza” tra essere e parola, la ricerca della verità che si rende “ridicola o impossibile”, la parola che dismette i toni prosopopeici del “qui ci sono io, qui comando io”, rinnegando la pretesa di “verità” che un tempo le apparteneva; l’avvenuta scissione fra Interpretazione e Lettera, spiegazione e senso, una modernità che pretende di separare risolutamente l’interpretazione delle cose e il senso delle medesime, ecco “la vita che si ritira nell’invisibile”, facendosi parola, sono i risultati evidenti di un percorso del quale Magris ha modo di porre il suggello: «Questa trasformazione, di cui tutti – anche e particolarmente i poeti – sono responsabili, è la grande alienazione dell’Occidente, il suo nichilistico destino che lo vota all’oblio del senso e dei valori – Heidegger direbbe all’oblio dell’essere».
E potremmo azzardare la convinzione che il nucleo del “discorso” che stiamo tentando avrebbe modo di collocare in questo punto il suo “inizio” più autentico e più risoluto, quello che ci “compete” e ci assale ancora oggi nel nostro “qui”, l’avamposto in cui gli elementi considerati si connettono per puro “istinto”, trovano la via di fuga proprio nel loro comporsi vicendevolmente, nel loro attrarsi svincolati da ogni regola, quindi “dove non esiste più una trama causale ma solo la spontaneità di un flusso costante e inarrestabile”, insomma la regione-limite, “frontiera della magia e del sogno, interregno tra il soggetto e l’oggetto, in cui l’astrazione del simbolo matematico si ricongiunge all’enigma stesso della ferinità”, secondo la visione di Ferruccio Masini, dove “ferinità” sta per “zona-limite nella quale mistica e follia, eccezionalità spirituale e delinquenza si sfiorano pericolosamente; una regione in cui la vicenda dell’ombra e della luce crea strani ed ambigui sdoppiamenti, e in cui le oscure radici del vitale e della ragione sembrano misteriosamente intrecciati”.
Una realtà perciò divenuta estranea alle pretese che ha l’intelletto di comprenderla e di circoscriverla: dentro questo nuovo “decalogo” dello stare al mondo, di relazionarsi con le perpetue ombre dell’altrui – l’autrui dei letterati e dei filosofi francesi – volendo rimanere separati, distinti, agli antipodi del cosiddetto “pensiero rappresentativo” – quel pensiero che continua a porsi dominante ancor’oggi nell’azione dell’autore-ideatore, diventa quindi sorprendente esplorare i nuovi parametri di “relazione”, di drammaturgia, le diverse “composizioni”, i moderni “congiungimenti”, per usare non a caso un termine che immediatamente richiama gli albori della sperimentazione musiliana, l’anno 1911 – Vereinigungen Unioni Congiungimenti – il cui primo elemento porta come titolo Il compimento dell’amore.
La scrittura narrativa di Musil obbedisce all’esigenza di far agire e interagire funzionalmente intelletto e sentimento – «L’intelletto si spande all’intorno e appena tocca il sentimento, diventa spirito» – trovando nella giustapposizione delle istanze un miracoloso punto di congiunzione, uno “sguardo unitario”; così quello che pensavamo essere un convenzionale meccanismo di “introversione psichica” – l’avventura dell’introversione di cui dona egregia testimonianza il Giovane Törless, ostentando l’avvenuta distanza tra gli accadimenti che lo aggrediscono e la coscienza che li viviseziona – muta nel cosmo musiliano nella messa in libertà delle forme primarie della percezione – l’intelletto e il sentimento, appunto – solitamente irrigidite nella “sclerosi delle forme”.
La Claudine protagonista del racconto Il compimento dell’amore, asseconda i dettami autoriali di un discorso interiore che lo stesso Musil considerava “incomprensibile sino ai limite del disgusto”, dove agisce e si radicalizza la separazione, il perseguimento di uno stato di estraneazione dalla propria natura “culturale” e linguistica, dalla propria presunta appartenenza, la non possibilità di riconoscersi ancora nelle parole. Scrive Magris: «Tra i significanti, le parole del linguaggio comune, e i significati ch’esse dovrebbero evocare si apre uno iato, un vuoto preciso e incolmabile. Il segno si scinde. I significati sfumano nell’indistinto, perché è indistinto il contesto che li circonda. Il linguaggio fallisce perché mira ad aderire totalmente ai significati vitali, che però giacciono in un fondo oscuro, vagamente percepibile e non articolabile. Il sistema linguistico, con le sue differenze, resta inadeguato al continuum della vita, al ‘Grund’, ossia al fondo del tessuto vitale, contro il quale l’espressione ritaglia vanamente immagini, schemi e concetti, che non rendono giustizia al trascorrere e all’integrarsi dell’esperienza».
Uno “iato”, appunto, lo hiatus, che nel caso di Musil si afferma con maggiore forza per la deliberata messa in mora, il convinto non riconoscimento di alcune fondative, basiche istanze culturali che noi stessi per lunghi anni abbiamo ancora ritenuto invincibili e insostituibili. Chi avrebbe osato nei nostri decenni appena trascorsi – gli anni ’70, gli anni ’80 in particolare – mettere in dubbio la consistenza e la validità della parola “inconscio”? Nella scrittura musiliana quella parola, cosi necessaria al nostro orientamento culturale e intellettuale, sarebbe caduta nel vuoto, avrebbe girovagato, zigzagato, nello spazio infinito e infinitesimale di un cosmo indistinto e indeterminato, sarebbe stata sottoposta ad ogni possibile cambiamento di rotta, di significato, suscitando variazioni e sorprendenti, inauditi capovolgimento di senso.
Un linguaggio non più in grado, non più in condizione di fissare concetti figure immagini, una lingua – un tempo lingua di riconoscimento – che si ritrova “alla deriva” nell’oceano degli accadimenti possibili, che si compone e si decompone nel medesimo spazio di azione significante, che risponde ad istanze contraddittorie o che non prevedono inizialmente alcuna possibilità di “relazione”. Magris: «Il nesso analogico, l’unico che potrebbe istituire dei legami e quindi delle chiavi conoscitive, viene cosi esasperato, e giunge sino alla mancanza o almeno all’impossibilità di individuazione dei nessi stessi».
Ed è meraviglioso, come forse qualche lettore avrà già constatato, che il titolo Congiungimenti, dal tedesco Vereinigungen, alluda o meglio “contenga” il suo disperato e prospiciente “contrario”, la non conciliazione tra gli elementi messi in campo dal racconto, che sono fondamentalmente due: la realtà psico-linguistica di Claudine e il relativo “saggio-pensiero” che da essa promana, due “sostanze” vitali, traboccanti di senso, che nella scrittura musiliana si aprono – si offrono per necessità assoluta – alla divaricazione sistematica, alla intransigente “autonomia”, coincidente con il piacere dell’isolamento, vissuto finalmente in una chiave inedita, in opposizione alla narcisistica introversione a cui come lettori eravamo sovente destinati. Non ci resta quindi che penetrare con le dovute cautele nel vestibolo della novella, la storia di Claudine, moglie esausta d’amore per il proprio “consorte” («A volte si desolavano di non poter mettere in comune tutto, fino all’estremo… Sentivano di non poter vivere l’uno senza l’altro, e che soltanto insieme, come un sistema ingegnosamente fondato su se stesso, potevano dare quel che volevano»), in procinto di partire per un viaggio che si trasformerà nella “visione” interiore di una nuova realtà sentimentale.
Unica e irripetibile la loro lingua di appartenenza: nelle prime righe il sodalizio amoroso tra Claudine e il marito appare impeccabilmente custodito, imprigionato dentro la regola-dottrina delle sensazioni: «Quando camminavano insieme, le loro ombre appena debolmente tinte di scuro erano attaccate così lente al loro passo come se fossero incapaci di legarlo alla terra, e il suono del terreno duro sotto i loro piedi era così breve e inabissato, e i cespugli vuoti così irrigiditi nel cielo che in quelle ore vibranti di prodigiosa sensibilità era come se a un tratto le cose mute e docili si fossero stranamente staccate. Ed erano dritte, torreggianti nella mezza luce come personaggi avventurosi, come stranieri, come esseri irreali presi dalla propria eco morente, consapevoli di avere in sé qualcosa d’incomprensibile che non otteneva risposta, che era respinto da tutte le cose, e mandava al mondo solo un raggio spezzato, scintillante qua e là, reietto e incoerente, ora su un oggetto ora su un pensiero sperduto».
“Esseri irreali presi dalla loro eco morente“: quale migliore presagio per una donna che guarda oltre: «Allora ella poteva immaginare di appartenere a un altro uomo, e non sembrava un tradimento ma un matrimonio supremo in un luogo dove essi non erano esseri reali, dove esistevano soltanto come una musica, una musica che nessuno udiva e che nulla riecheggiava… E mentre le sembrava che forse si amavano solo con tutta la forza di un rifiuto di ascoltare un suono lieve, doloroso, quasi freneticamente intenso, presentiva le complicazioni più profonde e i tremendi grovigli che si producevano negli intervalli, nei silenzi, nei momenti del ridestarsi da quel tumulto nel mondo senza sponde dei fatti, per trovarsi fra avvenimenti inconsci e meccanici, con null’altro che un sentimento; e col dolore del loro alto e solitario spiccare l’uno accanto all’altro – di fronte al quale tutto il resto non era che uno stordirsi e rinchiudersi e addormentarsi a forza di rumore – ella lo amava quando pensava di infliggergli l’estrema offesa mortale».
Una pioggia di accordi che porge l’introduzione allo “strappo”: «Per settimane ancora il suo amore conservò quel colore, che poi svanì a poco a poco. Ma spesso quando ella sentiva la vicinanza di un altro uomo ricompariva, sebbene più pallido. Bastava un uomo qualunque che diceva qualcosa d’indifferente e lei si sentiva come contemplata, fissata con stupore di laggiù… perché sei ancora qui? Non le accadeva mai di desiderare questi estranei; le era penoso pensare ad essi, anzi le facevano ribrezzo. Ma a un tratto c’era intorno a lei l’immateriale ondeggiamento del silenzio; e lei non sapeva se si innalzava o precipitava». (Nota: La traduzione dei brani in lingua italiana appartiene alla meticolosa dedizione di Anita Rho, quindi al lontano anno 1964 : rimane ancora ineguagliata).
Si direbbe, insomma: ecco, squadernata, la passione intellettuale di un grande scrittore, il “corpo” vivo di un sentimento a cui offrire obbedienza nella sua forma più radicale, acuta ed esasperata, come vedremo meglio tra poco. In questo primo approccio della Novella che cosa notiamo? Uno scrittore che “getta” molecole di parole e concetti dentro un reticolo di pensamenti razionali e irrazionali, intellegibili e oscuri, che a volte paiono voler emulare lo stile di un grande scrittore ottocentesco, ancora in vita nell’anno di composizione della novella, che nutriva la sua arte narrativa di forme di pensiero, esasperando ogni dettaglio si donasse alla sua percezione sensibile, ossia Henry James, scrittore che nei Diari e nei Saggi, tuttavia, Musil non cita neppure una volta.
Passione intellettuale, quella di Robert Musil, che è anche il “sentimento” base del farsi e volersi scrittore: generare un pulviscolo di forme e figure, ognuna di esse chiusa e resa autonoma nella propria indistinzione e indeterminatezza. E, dietro, si affaccia lo “sguardo” ironico dello scrittore-demiurgo che fluttua insieme alle figure e alle forme, le scopre, le mette in campo, a volte le irride, facendo intendere come in un recente passato esse rispondessero a collaudati statuti ottocenteschi, rischiando piattezza e uniformità.
C’è un flusso di atomi che corre, naviga lungo gli spazi della scrittura di questa novella, rendendo possibile la nascita di un organismo ibrido non più sorretto dal principio di causalità, proprio perché il principio di causalità, di cronologica appartenenza, richiama il principio classico di “narrazione”, di “avvicendamento”, parametri che Musil rifiuta, che accetta soltanto in chiave ri-generativa, nella suprema convinzione che… “tra i significanti, le parole del linguaggio comune, e i significati ch’esse dovrebbero evocare, si apre uno iato, un vuoto impreciso e incolmabile“.
Preferisco non addentrarmi tra i complessi riferimenti che Musil utilizza per dare impulso al regolare smantellamento delle convenzioni narratologiche, i nomi evocati vanno dal già citato Ernst Mach allo psicologo Wilhelm Wundt, all’amato e odiato Maurice Maeterlinck, fino alla componente teorica della psicologia della Gestalt. Elementi che ha analizzato lo studioso Enrico De Angelis in un libro-compendio dell’anno ’82, Robert Musil Biografia e profilo critico.
«Sulla scorta di Mach – scrive De Angelis – Musil mette in discussione il concetto di causalità: le pretese spiegazioni causali sono in realtà soltanto constatazioni di una concatenazione di eventi, che però non ne fa vedere le ragioni; compito della scienza non è ricercare le cause ma solo le relazioni funzionali, che permettono di calcolare un fatto procedendo da un altro. La scienza diventa così qualcosa che, libera dalla metafisica, ci dà degli strumenti economici i quali ci consentono di stabilire un rapporto praticamente sufficiente col nostro ambiente… Ciò vuol dire che cade il concetto di sostanza: la fisica non sa più che farsi della sostanza “cosa”, la psicologia non può più servirsi della sostanza “anima” o della sostanza “io”; oggetto di entrambi sono le sensazioni».
Compaiono quindi sulla scena teorica la categoria-principe della “percezione” e la figura dell’Appercettore, da cui nasce il testo musiliano – scritto a ridosso della novella – che porta come titolo Note sull’appercettore e simili. L’appercettore è l’Io consapevole di “farsi” agire dalle “percezioni”, contribuendo a costituire quel mondo delle sensazioni che, secondo lo scienziato-filosofo Ernest Mach, è l’oggetto sia della fisica che della psicologia.
Ma, prosegue De Angelis, «mentre si forma il mondo degli oggetti esterni si constata nell’Io, oltre ad una appercezione, anche una emozionalità semplicemente percepita, cioè non costitutiva dell’idea dell’Io; a questa corrisponde un’immagine del mondo costruita con l’ausilio degli organi semplicemente percettivi… L’appercettore stesso si struttura secondo due fattori, uno intellettuale e uno emozionale. C’è infatti la possibilità di percepire il mondo e di capirlo intellettualmente senza però sentire internamente un rapporto con esso; lo stesso vale per le emozioni: possiamo avvertirle eppure esse ci fanno l’effetto di appartenere ad altri, di esserci estranee».
È proprio l’itinerario, parossistico, cui si vota il personaggio di Claudine, bene rispecchiato in due passaggi che lasciano vibrare la medesima nota: «Tutto quel che faceva in fondo non la toccava essenzialmente. Tutto quel fare di una donna infelice, comune, infedele scorreva via da lei come un ruscello e lei aveva soltanto l’impressione di starvi dentro immobile e pensierosa… Aveva di se stessa una coscienza grande ed immobile, sulla quale passato e presente si ripetevano come piccole onde, come nell’aria si guardano l’un l’altro, estranei, i punti incomprensibilmente riuniti a formare un disegno casuale. Rabbrividì, oppressa dal pensiero di non essere lei stessa che uno di quei punti».
Soltanto una scrittura che si incarica di “mettersi al posto” sia della realtà fenomenica che delle reiterate “convenzioni” che l’Io traduce in pensieri-parole per rappresentare quella realtà, può illudersi – pur nella sua inesausta “cerebralità” – di officiare le “nozze” tra intelletto e sentimento. Claudine – il suo peculiare punto di vista e di osservazione – è maestra nel raggiungere questo scopo: «Andò fino alle porte della città. Ampia e bianca come un mare si stendeva la campagna all’intorno. A tratti una cornacchia attraversava quel candore, qua e là emergeva nero un cespuglio. Solo laggiù sotto l’orizzonte in piccoli punti oscuri, staccati, ricominciava la vita. Ella tornò indietro e camminò per le strade, inquieta, per forse un’ora. Svoltò in tutte le vie, rifece gli stessi tratti in senso contrario, li abbandonò cambiando direzione, attraversò piazze dove sentiva di esser passata poco prima; dappertutto quel gioco d’ombre bianche su dalla pianura vuota attraversava col suo luccichio febbrile la cittadina tagliata fuori dalla realtà… Allora i suoi atti le apparivano strani e pieni di intensissima vita; nella quiete senza suoni le cose visibili parvero ripetersi come un’eco in altre cose visibili. Poi tutto si ritrasse in se stesso; le case la circondavano in strade incomprensibili, aggruppate come i funghi in un bosco o come macchie d’alberi su una vasta pianura, ed ella sentiva ancora l’immensità e la vertigine. C’era in lei qualcosa come un fuoco, come un liquido ardente e amaro, e mentre camminava e meditava le sembrava di essere portata per le strade come un’anfora dalle pareti sottili, grande, fiammeggiante, misteriosa».
E quando Claudine è obbligata a presenziare dentro i dati di realtà, a porre il suo intelletto nel quadrilatero di immagini e parole che la realtà le sottopone, i toni della riflessione diventano questi: «Nella luce grigia quegli uomini neri e barbuti le parevano giganti dentro le sfere semibuie di mondi ignoti, ed ella cercò di immaginarsi che cosa si doveva sentire ad esser rinchiusi così… Allora pensò segretamente: “Una donna come me forse potrebbe vivere persino con uno di questi uomini”. Quell’idea conteneva un fascino singolarmente tormentoso, una dilaniante voluttà del cervello, e davanti ad essa c’era come una sottile lastra di vetro contro la quale si pigiavano dolorosamente i suoi pensieri per scrutare in un’incerta foschia. Frattanto ella godeva di poter fissare negli occhi quegli uomini con chiarezza e senza sospetto».
La non-adeguatezza della realtà allo “spirito”, la diaspora che si determina tra i significanti – le parole del linguaggio comune – e i significati ch’esse dovrebbero evocare, erano già presenti in uno scritto del decano dei germanisti italiani, Ladislao Mittner – uno dei primi decrittatori delle trame musiliane – apparso nell’anno ’57, quindici anni dopo la morte dello scrittore: «La realtà è per Musil inadeguata allo spirito, perché vi è una discrepanza interminabile fra la parola e la cosa. L’autore ripete infinite volte il giuoco di svuotamento non solo delle immagini ma anche delle parole; il sentimento che animava la parola si volatilizza e si dissolve nel nulla, mentre la parola svuotata si rattrappisce, si affloscia miseramente, si riduce nel suo stesso peso fonico, tanto da rivelarsi, alla fine, illusoria, inesistente… Tutto il mondo di Musil è condannato allo sfacelo, perché nessuna parola è capace di dire ciò che quel mondo veramente è».
A cui sarebbe d’uopo aggiungere un passo della Lettera di Musil al critico e saggista austriaco Franz Blei, datata “primi di luglio 1911”, nella quale si dice che “il punto di vista non è quello del narratore né quello del personaggio; al contrario non c’è affatto punto di vista, le novelle non hanno un punto prospettico centrale”: «Il mio principio selettivo è stato il seguente: i destini umani rappresentati – per esempio in Ibsen, Dostojevskij o in altri che stimo, anche in Claudel – non suscitano la mia totale partecipazione emotiva; manca loro un’intera classe di oggetti di valore interiori (compresa, naturalmente, la molteplicità dei suoi rapporti, su cui si basa l’azione); questa classe mi manca dappertutto. Non trovo da nessuna parte qualcosa che mi avvinca. Era questo genere (genus) di interiorità che volevo istituire nelle novelle, il resto è secondario. Naturalmente cercherò di istituirla ovunque, ma qui con la massima purezza possibile. Pertanto il principio selettivo è stato: una concatenazione di passi, a ogni anello della quale non sia in primo luogo data una ragione, ma una legittimità».
Dall’apparizione del vuoto impreciso e incolmabile, dove la scrittura ritrova le proprie potenzialità mettendo in congiunzione intelletto e sentimento, si distende “una prosa densa di interrogativi, di sottolineature allusive, di metafore stranianti”, insomma la fenomenologia sperimentale di cui parla Ferruccio Masini, che culmina nella rarefazione estatica – la logica fluida dell’anima – dentro cui i personaggi narrativi appaiono “come avviluppati a se stessi e nello stesso tempo quasi paradossalmente consegnati ad un mondo muto e insondabile che inesplicabilmente li affascina”.
«L’erotica aberrante e adolescenziale del Törless rispecchia, nelle situazioni-limite di un’adolescenza sottilmente ipnotizzata dai suoi misteri intellettuali e carnali, non soltanto le sinistre tortuosità di quella volontà di potenza che smarrirà nella crudeltà e nella perversione sessuale il senso umano della sua ricerca di significato, ma anche la preistoria ambiguamente simbolica e occultamente morbosa di una sensualità in statu nascendi, in cui il femminino e l’extraumano, l’Altro demonico o divino che sia, si mostrano sempre connessi».
E questo potrebbe porsi come punto d’arrivo, punto di approdo, sì da conferire statuto di esaustività, allo sconvolgente scenario della Parte Terza dell’Uomo senza qualità, dove si celebra – come fossero appunto “nozze” mistiche – il congiungimento intellettuale e carnale di un fratello e di una sorella, di Ulrich e di Agathe, che dopo aver vissuto per decenni nella disparità, contemplando vicendevolmente l’incognita dell’assenza, si ritrovano proprio per immergersi nello “iato”, nell’apertura dell’ignoto, così da sperimentare una condizione di assoluta appartenenza. Come, del resto, è scritto e suggellato nella profezia critica di Maurice Blanchot: “En s’unissant à cette soeur qui est comme son Moi plus beau et plus sensible (le corps de l’incarnation qui lui manque), il trouve en elle la relation à lui-meme dont il est privé, un certain rapport tendre qui est l’amour-propre, l’amour particulier de soi, qu’un homme sans particularités ne peut certes connaitre, à moins de rencontrer dans le monde son identité errante sous la forme de son double, la petite soeur-épouse, l’eternelle Isis qui rend vie et plenitude à l’être épars dont la dispersion est attente infinie de recueillement, retombée sans fin vers le vide“.
(Novembre 2019-2022)