Fare il regista, esibire il “vecchio mestiere del cinema” – l’espressione è di Serge Daney – non è affatto consolante. Al dispendio esagerato di energie segue sovente l’angustia del risultato. Tante, troppe, le circostanze che partorite dalla testa di un solo individuo devono poi nella realtà del Set allinearsi e convergere favorevolmente: in ultima istanza “regista–metteur en scène” sarà colui che avrà ricondotto la “possibilità” nei giusti confini e generato dal caos una regola vincente.
L’incontrastata unicità di Orson Welles la constatiamo ancor più oggi se misuriamo il divario, la differenza, tra la progettazione originaria dell’Idea e il risultato ottenuto. Scoprendo che nel suo caso non si trattava di “mediare”, in punta di amarezza, tra ciò che si vuole perseguire e ciò che nella pratica estenuante del Set si riesce a raccogliere, bensì di escogitare ogni volta sul campo un nuovo sistema di gioco, una nuova prospettiva di visione.
Se c’è un motivo che oggi rende – ancora una volta – pressoché inevitabile l’avvicinamento critico al cinema di Orson Welles, è da cercare nell’asserita e compulsiva incompiutezza della sua opera, al punto che una nuova edizione critica dovrebbe per prima cosa analizzare il carattere empirico, sperimentale di quella ispirazione, le leggi produttive che l’hanno sostenuta e controllata, a partire dal film d’esordio, Quarto potere, che godette di condizioni eccezionali e rimase caso unico e irripetibile nella cronistoria di Hollywood.
Conclusa quella sontuosa operazione, l’autore-regista cadde in costante disgrazia nella catena di produzione del sistema hollywoodiano e fu discriminato, con deliberata perfidia, in numerose occasioni: da qui la necessità tangibile di una “Filmografia parallela” che raccolga il vasto arcipelago dell’Incompiuto wellesiano.
Articolato in tre settori:
le opere progettate, abbandonate o mai iniziate: lista che vede al primo posto Cuore di tenebra, dal racconto di Conrad, un Enrico IV da Pirandello, un Delitto e castigo da Dostojevskij;
i progetti incompleti, non finiti, che include il travagliato Don Chisciotte, il film It’s all True (“È tutto vero”, del quale furono girati 30.000 metri di pellicola), The other side of the wind (“L’altra parte del vento”, le cui riprese iniziarono nel ‘70 tra Los Angeles e l’Arizona), Jangadeiros, girato nel ’41 tra Argentina, Messico, Brasile e che risulta interamente “improvvisato durante il tournage”;
un film mai distribuito: The deep, girato a Hvar, in Jugoslavia, con Laurence Harvey e Jeanne Moreau, tra il ’67 e il ’69.
Aggiungendo infine il capitolo che esamina i differenti stadi di elaborazione che le opere considerate “finite” hanno attraversato nel corso delle riprese, cioè i rifacimenti che si sono susseguiti rispetto al progetto primitivo: uno studio sistematico che attesti le “deviazioni” che hanno modificato o sovvertito l’ispirazione iniziale.
Welles diceva: «Un film non corrisponde mai al progetto iniziale. Io cambio continuamente. All’inizio ho un’idea base di ciò che dovrebbe essere il film finito. Ma ogni giorno, a ogni ora, a ogni istante, quell’idea viene deviata, modificata, dalle condizioni espressive che si trovano sul set, fosse anche lo sguardo di un’attrice o la posizione del sole. Non ho l’abitudine di preparare minuziosamente un film e poi cominciare a girare. Ciò che faccio è preparare un film sapendo che di certo non farò “quel” film. La preparazione ha lo scopo di liberarmi di alcuni principi e consentirmi così di lavorare liberamente, alla mia maniera!».
Dopo Quarto potere Welles imparò a nutrirsi quasi esclusivamente di “casualità”: il termine “Officina”, applicato al suo cinema, assume un connotato pragmatico, fattuale, molto esplicito, il suo lavoro di regia diventa un cantiere in permanente combustione, finalizzato non alla realizzazione di un prodotto predefinito, pre-elaborato, bensì all’affermazione di un “processo” che si vuole sempre in via di “compimento” e che cerca nel Set, nella pratica “occasionale” del Set, la definitiva identità.
Alcune cifre parlano da sole: l’idea iniziale del Don Chisciotte risale all’anno ’55 e il film non fu mai terminato. Vent’anni dopo Welles faceva ironia sul tema, ripetendo che il titolo esatto sarebbe diventato: “Quando sarà finito il Don Chisciotte?”.
Otello, che vinse la Palma d’oro a Cannes nel ’52, affrontò infinite avversità. Il ruolo di Desdemona fu interpretato da quattro differenti attrici: Lea Padovani, Cécile Aubry, Betsy Blair e Suzanne Cloutier, prima che la sorte definitiva favorisse quest’ultima. Girato tra il ‘49 e il ‘52, alle prese con continue interruzioni e smottamenti, dovette affidarsi alle tattiche di un giocoliere provetto per mantenere una linea di stile e di metodo:
«Ogni volta che si vede qualcuno di spalle con un cappuccio in testa, si può essere certi che si tratta di una controfigura. Ho dovuto far tutto in campo controcampo poiché non riuscivo mai a riunire davanti alla macchina da presa Iago, Desdemona, Roderigo».
La signora di Shanghai, iniziato negli studi della Columbia nell’anno ’46, subì revisioni, tagli, aggiustamenti, molti dei quali non autorizzati dal regista. A conti fatti, mancherebbe circa un’ora del progetto iniziale. Il commento musicale voluto da Welles fu rimontato e in parte sostituito da una persona incaricata dalla produzione. La meravigliosa scena finale nel luna-park dismesso, con gli specchi che si moltiplicano, nel gioco di illusione pirotecnica che diventa destino di morte, frazionando e frantumando le identità figurative dei tre protagonisti, patì una considerevole mutilazione.
Rapporto confidenziale, iniziato nel ’54, uscì nelle sale tre anni dopo. Il montaggio durò circa otto mesi e non fu Welles a concluderlo.
Una vasta catena di “contingenze” che a volte paiono del tutto inverosimili, come la progettazione de La signora di Shanghai, nel racconto che ne fa lo stesso Welles:
«Stavo lavorando all’idea di uno spettacolo teatrale tratto da “Il giro del mondo in 80 giorni”, che sarebbe stato prodotto da Mike Todd. Improvvisamente, vengo a sapere che Todd è andato in rovina. Sono a Boston per la “prima” e non posso neanche ritirare i costumi perché bisogna pagare 50.000 dollari. E senza quel denaro non si può andare in scena. All’epoca ero già separato da Rita, non ci parlavamo nemmeno, non avevo voglia di fare film con lei.
Ho cercato allora di mettermi in contatto con Harry Cohn, direttore di produzione della Columbia, che si trovava a Hollywood, e gli dico: “Ho una storia straordinaria per te, se mi spedisci subito via telegrafo 50.000 dollari”. Cohn chiede: “Che storia?”. Stavo telefonando dalla biglietteria di un teatro, accanto c’era uno scaffale con alcuni libri sparsi disordinatamente. Ne prendo uno, il primo titolo a caso, e leggo: “La signora di Shanghai, compra il romanzo, io farò il film”. Un’ora dopo abbiamo ricevuto i soldi. A quel punto ho letto il libro e l’ho trovato orribile. Mi sono messo a gran velocità a scrivere un canovaccio. Tornai a Hollywood per organizzare le riprese, pensando a un budget molto basso, da girare in sei settimane. Cohn mi chiese perché non lo facevo con Rita. Gli dissi che il personaggio non era simpatico, una donna assassina, un ruolo che avrebbe danneggiato l’immagine pubblica di una star come lei. Ma quando Cohn propose il progetto a Rita, lei si intestardì, disse che avrebbe voluto farlo a tutti i costi, così un budget di 350.000 dollari salì a due milioni».
Il discorso delle “contingenze necessarie” si allarga poi al territorio delle forme cinematografiche. Nella composizione delle scene, Welles valutava solitamente due possibilità: catturare le particelle del racconto filmico e sistemarle nel mosaico della moviola oppure programmare la strategia del piano-sequenza, disponendo al millesimo gli elementi del “paesaggio”, tentando di farli convergere all’unisono nell’armonia unitaria della scena. E se alla fine optava per l’una o per l’altra soluzione, dipendeva anche dalla benevolenza del budget:
«Se a volte non faccio inquadrature lunghe non è perché non mi piacciano più, ma è per il fatto che non mi si danno i mezzi per permettermele. È molto più a buon mercato fare questa immagine, poi questa immagine, poi ancora questa, e cercare di organizzarle successivamente in fase di montaggio. Io preferisco evidentemente controllare gli elementi che sono davanti alla macchina da presa mentre quella gira, ma ciò esige denaro e la fiducia del produttore».
È tra gli sforzi e le premure della contingenza, dunque, che Welles scopre alcuni principi-base del suo approccio formale. Che meritano di essere rievocati, anche perché costituiscono ancora oggi materia-base per chiunque voglia cimentarsi con il lavoro di regia.
Quando rimanemmo incantati dalla scena iniziale de L’infernale Quinlan (6 minuti e 48 secondi di vertiginose “cadenze” della macchina da presa, prima che l’obiettivo si arresti sul faccione del poliziotto Hank Quinlan, alias Orson Welles), non capimmo immediatamente che al di là dell’acrobatica torsione delle immagini in continuo avvicendarsi, si stava consolidando un metodo che oggi – prendendo in prestito dalla filosofia le parole – chiameremmo di “sezionamento mobile”, finalizzato a frastagliare, scomporre i diversi piani di realtà (con l’ausilio di un obiettivo grandangolare, che esaltava le prospettive), quindi tagliare il tempo, “sforbiciarlo”, generando una situazione di simultaneità tra le diverse componenti della sequenza: un attentatore che colloca esplosivo nel bagagliaio di una Chevrolet decappottabile, il magnate Linnaker e la sua giovane compagna che si avvicinano ed entrano nell’auto, la zona di confine tra America e Messico nella cittadina di Los Robles, la seconda coppia Charlton Heston-Janet Leigh in viaggio di nozze, il caos di una notte cittadina in perverso movimento, il passaggio della Chevrolet, la susseguente esplosione con l’auto che salta in aria.
La variante felice di questo metodo – già pienamente in vigore durante l’ideazione e l’elaborazione di Quarto potere – consiste nell’apertura multipla di innumerevoli “finestre”, che corrispondono a movimenti e spostamenti spaziali, incessantemente “cercati” o “rubati” dalla macchina da presa. La logica è di non arrestare mai il movimento del racconto, del récit, anzi rincorrerlo e aggredirlo senza tregua, “incombere” di continuo sulla visione di uno spettatore costretto a trattenere il fiato e a soggiacere dinanzi alla temuta “imprevedibilità” che scaturisce: uno spettatore accerchiato anche da ciò che si genera sul fronte audio, dalle ulteriori aperture che la dialettica dialogo-suono accende (argutamente Truffaut sottolineò, a proposito di Quarto potere, che “le voci contano più delle parole, un dialogo che a volte lascia parlare tutti i personaggi nello stesso momento, come fossero strumenti di una partitura e con delle frasi smozzicate come nella vita reale”).
La visione di Welles si attua attraverso “fenditure” che si rivelano nello spazio dell’inquadratura, costringendo a volte gli stessi attori, in presa diretta, a cercare posto dentro tali postazioni, come Antony Perkins-Joseph K. ne “Il processo”, quando spia la realtà da pertugi “inverosimili” oppure pare disporsi autonomamente nel perimetro dell’immagine utilizzando l’apertura dell’obiettivo che distorce volto e figura, modificando o alterandone le espressioni.
Nelle inquadrature di Welles l’uso dello spazio e dell’architettura spaziale appare così autorevole ed eloquente da offrire la sensazione che il “mondo” si dilati e si distenda per ampiezze insondabili, non visibili, che vanno oltre il “quadro” consentito dal piano cinematografico.
Ancor più sbalorditiva è la consapevolezza con cui Welles affronta la carambola dei procedimenti tecnici, come riuscire a “focalizzare” simultaneamente più zone di ripresa, sfidando lo spettatore a sistemarsi dentro ogni possibile angolo della visione.
Procedimenti che Welles non avrebbe mai potuto attuare senza la collaborazione determinante di Gregg Toland, il capo-operatore. A precisa domanda sul perché negli ultimi film avesse perduto il virtuosismo della macchina da presa, rispondeva: «Non è per avvenuta saggezza, è perché i tecnici che mi assistevano in queste operazione sono morti o stanno morendo».
Gli esempi della scena finale de La signora di Shanghai, della imponente scena iniziale di Othello oppure le situazioni labirintiche e pressoché “allucinate” di Rapporto Confidenziale, mostrano concretamente come Welles tentasse di raggiungere zone “inconsce” della narrazione e dei personaggi distorcendo la visione dei piani, inventando un moto “ondulatorio” dell’inquadratura, che produce la pluralità – e la differenza – dei punti di vista.
Eguale godimento pretendeva dall’uso del suono e del sonoro: il sovrapporsi delle parole durante un dialogo serrato è stata una delle sue prime sperimentazioni, come rileva l’attore Hiram Sherman, che fece parte del “Mercury Theatre” nel ’38:
«Lui voleva che saltassimo addosso alle battute. Tutto doveva mescolarsi, confondersi: non si doveva terminare una frase senza che qualcun altro ci togliesse le parole di bocca».
Su tali aspetti, del resto, Welles è più volte intervenuto nelle interviste, richiamando efficacemente la poetica che sorregge il suo percorso nelle forme:
«Per me il cinema è un pezzo di vita in movimento che si proietta su uno schermo, non semplicemente un’inquadratura fissa. Io credo al cinema soltanto se c’è movimento. Per questo non sono d’accordo con tanti registi, che pure ammiro, che si accontentano di un cinema statico. Per me quelle sono immagini morte. Da spettatore avverto il ronzio del proiettore alle mie spalle e quando vedo quelle lunghe camminate sulle strade, aspetto la voce del regista che grida: “Stop, taglio!”».
Il regista-metteur en scène si trasforma in maestro-concertatore, provvisto di una solida concezione del mondo – soprattutto estetica, soprattutto morale, quindi politica; provvisto di un sapere multiplo che gli consente di governare la casualità e rendere vigilata l’improvvisazione, in grado insomma di richiamare la realtà del Set alla necessità dell’ora.
Molti anni prima che la critica filosofica sviluppasse il concetto di “immanenza”, Welles ne faceva largo uso nella pratica di ripresa.
Ma la sovraesposizione dei piani non si darebbe con tale potenza se non fosse sostenuta e supportata dal “character” dell’azione e dei personaggi che la incarnano. “Character” è altra cosa dal “carattere” come noi lo intendiamo nella traduzione letterale. Welles ne parla lungamente in un’intervista concessa nel ’58 ad un trittico di critici agguerriti, André Bazin, Charles Bitsch, Jean Domarchi:
«Character ha due significati in inglese. Se parlo del mio carattere, vuol dire in genere che io sono fatto in quel modo, in sostanza è l’equivalente dell’italiano “sono fatto così”. Ma in inglese ‘character’ non è solo il modo nel quale un individuo è fatto, ma anche quello che si decide di essere. È soprattutto il modo nel quale ci si comporta di fronte alla morte, poiché io penso che non si possa giudicare la gente altro che per il comportamento di fronte alla morte. “Character” non è né temperamento né personalità. Non si tratta del “carattere” come lo si intende di solito: il vostro carattere, il mio carattere. No, “Character” è un concetto aristocratico. Otello ha del “character”, per esempio».
«L’importante è sapere invecchiare bene», aveva biascicato Michael O’Hara abbandonando il campo di battaglia del parco giochi, nel finale de “La signora di Shanghai”, lasciando sul terreno la star agonizzante (Rita Hayworth) e giurando a se stesso che non si sarebbe più comportato “come un allocco”, che voleva dire: non cadrò più vittima di donne-trappola e di storie che non portano nulla di rilevante.
Alcuni decenni più tardi, il chiaroscuro de “La signora di Shanghai” trascolora nel colore sbiadito di una lussuosa villa-magione dove vive un certo Mr Clay, ricco mercante imbambolato dalla senilità, spaventato dalla prescienza della propria fine, recluso in una splendida villa, fedele alla ricchezza e a quella perversa morale che fa credere che i soldi rappresentino “un baluardo contro la dissoluzione dell’umanità”.
Ancora una volta è il corpo del gigante Orson Welles – quel corpo che si è chiamato anche Macbeth, Otello, Falstaff, Riccardo II, quel corpo che ha fatto da scudo e da sfida al mondo – ad assumere le fattezze del vecchio Clay. Il cui unico e solitario interlocutore è un certo Levinsky, ebreo polacco sopravvissuto ai pogrom, presenza discreta, segretario-badante, a cui Clay chiede spesso di narrare storie, apologhi, fiabe, come ricompensa del tempo che lui ha dilapidato o non ha saputo occupare.
Una sera si comincia con una predizione del profeta Isaia («Dio verrà con la divina ricompensa») e si finisce con una storia che si tramandano i marinai nelle oziose pause: un ricco anziano signore invita un marinaio a passare la notte con la sua giovane moglie e a concepire in sua vece un bambino. Allo spuntare del giorno, lascerà la casa, riceverà cinque ghinee di ricompensa e scomparirà per sempre.
È lesto Mr Clay ad arguire che questo apologo può diventare il suo miglior testamento: «Se una storia non è mai accaduta prima, io la farò accadere ora. Non mi piace la finzione, non mi piacciono le profezie. A me piacciono i fatti».
Sale quindi su una carrozza a cavalli e va alla ricerca di un marinaio e di una prostituta cui affidare il ruolo di “amanti”, assumendo i panni del “regista” plasmatore di anime – ciò che forse è sempre stato o avrebbe voluto essere – trasformando una materia inerte come due sconosciuti viandanti presi dalla strada in una sfida eroica alla vecchiaia, alla decadenza, alla morte.
Da questa intuizione, che è anche un racconto di Karen Blixen, Welles ha ricamato il film Storia immortale, prodotto dalla televisione francese, la cui prima emissione, prevista il 24 maggio 1968, fu annullata per uno sciopero dell’ORTF.
Negli anni in cui il “gigante” Orson Welles fa i conti con la vecchiaia, con il crepuscolo degli anni (ripeterà spesso: «La vecchiaia è un vero naufragio!»), la sua macchina da presa si fa cauta, pacata, delicata, non si scatena a trovare zone nascoste della realtà, ma si “ferma”, si arresta dietro la porta di una camera da letto a “origliare” il bisbiglio di una notte d’amore, ciò che nelle mani di un regista qualsiasi sarebbe stato l’ennesimo simulacro di erotismo e che qui invece non ha niente di scontato o di consueto, trasformandosi nel canto soffuso di due corpi che si cercano nei dettagli dei volti e dei gesti, come faceva Paolo Uccello quando dipingeva una scena di battaglia.
Ai volti di Mr Clay e dell’aiutante (il misterioso Roger Coggio) si affiancano le figure di Norman Eshley, il giovane marinaio, qui chiamato Paul e Jeanne Moreau, la prostituta, che porta il nome Virginie. E che avendo bene imparato come ci si muove e ci si comporta dentro un’inquadratura costruita da Welles, raggiunge il perfetto “climax” il mattino dopo la notte d’amore, allorché con un pizzico di terrore sulle labbra confessa di essersi sentita come nella sua remota “prima volta”, quando nell’acme del piacere le era parso di sentire la terra vibrare nel vortice di un terremoto.
Non voglio addentrarmi oltre a rischiarare la solenne lezione di stile di questa piccola opera (piccola naturalmente per i pochi mezzi a disposizione), che rimane una pietra preziosa nel firmamento della tormentata filmografia wellesiana.
Vorrei piuttosto che i lettori di questo Blog – oggi al battesimo – sostenessero l’Iniziativa di programmare, in una data e in un luogo da definire, la visione di questo Film, che risulta pressoché scomparso dai circuiti televisivi.
(Settembre 2013)
3 Commenti. Nuovo commento
Stupendo. Questo generoso lavoro messo a la nostra disposizione è meraviglioso per quelli che non hanno avuto il mezzi per capire i sensi profondi e di forma delle grande opere cinématographique. Se un giorno potete raccogliere tutti i article del vostro blog in un libro saggio in modo che sia tradotto in francese sarrebbe forte. Se non è dja fatto. Grazie per questo favoloso giro accanto a Welles durante il suo impegno artistique.
Carlo, un esordio splendidoI Il tuo OW non lo fai invecchiare!
E … Une histoire Himmortelle? Riguardiamolo tutti insieme!
Il tema “character” mi ricorda Montaigne nei sui saggi ai capitoli: “filosofare é imparare a morire” e sulla felicità “Bisogna giudicare la nostra felicità solo dopo la morte”. Di corsa a rileggermeli! Ser
Una bella lezione di visione consapevole. Avrei desiderato parlarne con te e col caro Gianni Op., che è stato sottratto alla nostra frequentazione, ma non al ricordo.