Juliette Binoche: la parte maledetta

Lui: «Mi piacciono tanto le tue labbra umide, sono come quelle delle attrici di un tempo».
Lei: «Ho fatto una brutta caduta quand’ero molto piccola, da allora quando comincio a piangere, non posso più fermarmi».
Lui: «Basta con le lacrime, voglio solo vederti sorridere!»
Lei: «Metti un disco, svelto, prima che la malinconia entri in noi»

Il 9 marzo Juliette Binoche compie 50 anni.
Se l’Attore è colui che nelle peripezie di un mestiere laborioso deve intensamente manifestare la volontà di un carattere, i 50 anni rappresentano l’età della ricognizione: occhi spalancati su ciò che per formazione, scelta o destino si è determinato, risposta definitiva al magnifico editto greco scolpito su marmo: Divieni ciò che sei.

Ma “ciò che è” l’Attore lo trae dal proprio Sé soltanto in parte. La sua valentìa si prepara e si forgia sul campo, su quel quid – imponderabile – che la capacità di sperimentazione riesce a trattenere e coniugare favorevolmente di volta in volta, rispetto alle circostanze.
Solitamente, quindi, egli non sceglie né identità né traiettoria di viaggio. La sua condizione somiglia piuttosto a un sentiero pietroso, anonimo, impersonale, difficile finanche da imparentare con il “caso” o la “casualità”: nozioni che hanno bisogno di una giustificazione storica o filosofica per consistere.
L’Attore viene “gettato” su un set cinematografico o su un proscenio teatrale senza conoscere in profondità le motivazioni e le ragioni che lo hanno lì sospinto. Da qui origina la sorte di attori che nella prima opera si offrono come “rivelazione” ma che dovendo poi dar conto di una effettiva originalità espressiva si mostrano non capaci di provvederla, similmente alla rosa di shakespeariana memoria: “dispiegata che sia, cade nell’ora stessa”.

Juliette BinocheSe è un anonimo proscenio, dunque, a stabilire le regole della futura competizione, avrebbe certo recato vantaggio agli esordi della Binoche intercettare un testo, un récit, che nell’aroma o nella rimembranza trattenesse la drammatica ferita da lei prevedibilmente subìta negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza: la separazione dei genitori avvenuta quando Juliette non ha ancora compiuto quattro anni.
Venire al mondo da un padre mimo-marionettista-regista teatrale e una madre attrice polacca naturalizzata francese costituisce un magnifico rebus esistenziale, del quale sarebbe importante ricucire la porzione di ricaduta sulla realtà sensibile: un affastellamento di immagini e parole che lo sguardo della Binoche bambina avrà opportunamente selezionato ed elaborato, trasformandole inconsciamente in un percorso di crescita che infine volgerà verso la volontà di rappresentazione.
«Oggi posso dire: sono un’attrice di cinema. Ma ho anche recitato in teatro, ho interpretato “La muta”, che rimane un’esperienza importante per l’incontro con Konchalovski e soprattutto con Cechov. Il teatro è stato il mio primo sogno, al liceo mi divertivo a mettere in piedi delle “pièces”, era evidente che avrei seguito questa strada, magari come decoratrice o come regista, non mi preoccupavo di dire a me stessa che avrei fatto l’attrice. Danzare, cantare, dipingere fa parte del medesimo movimento: lo slancio di energia verso l’altro, che prende forma in una condizione di silenzio, di spazio interiore, in quel luogo nascosto che appartiene soltanto a me. Ma per far sì che questa condizione arrivi, c’è bisogno di una forma d’espressione».
Così confidava a Jean-Michel Frodon, nell’anno 2007, durante una delle sue rarissime interviste: esprimendo quella “naturale” necessità intorno alla quale il percorso formativo si elabora e si risolve.
Personalmente, non mi sarei meravigliato se in virtù di tale incastro di voci, sembianze e ruoli generati nel recinto familiare, l’avessi vista indossare a 18 anni i panni della Figliastra nella processione pirandelliana dei Sei Personaggi: sarebbe arrivata sul proscenio fiera e determinata (“spavalda, quasi impudente” reclamava Pirandello), pronta a confrontarsi con le perplessità del Capocomico:
«Potremmo esser noi la loro commedia nuova (…) E potremmo esser la sua fortuna! (…) Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque sperduti».

Juliette BinocheTuttavia, quanto fosse ampia la facoltà di prova offerta alla sua formazione, Juliette Binoche lo lascia intravedere fin dalle sperimentazioni iniziali.
A 16 anni frequenta il “Conservatoire national superieur d’art dramatique”, a 19 la prima apparizione sullo schermo per un film indipendente, “Liberty Belle”, a 21 anni è sotto la direzione di Godard che fa di lei la tentatrice Maria Maddalena in Je vous salue, Marie; nello stesso anno André Techiné – nel film Rendez-vous – la rende protagonista del personaggio Nina, la ragazza di provincia che raggiunge Parigi per farsi attrice di teatro e scopre di aver bisogno soprattutto di farsi donna, intercettando sconfitte e delusioni.
Pochi mesi dopo avviene l’incontro determinante con Leos Carax, il regista “maudit” del cinema francese anni ’80, che diverrà suo demiurgo e compagno di vita, costruendo su di lei il personaggio Anna nel film Mauvais sang.
È questa l’opera per la quale la Juliette di 22 anni azzarda il colpo di dadi, raccogliendo a piene mani il dono che il cineasta innamorato le dedica. Da tale cimento hanno inizio sette formidabili anni della sua carriera che vedranno avvicendarsi in sequenza autori come Carax, Malle, Kieslowski: sette anni che sono anche il perimetro da me scelto per queste fugaci annotazioni.

Juliette BinocheLeos Carax è un autore di sicuro fascino, che si diletta a frantumare la realtà, creando con la macchina da presa un caleidoscopio di effetti poetici e attingendo senza pudore da Godard come da Fassbinder, deviando sul noir francese alla Melville e non disdegnando la lezione di Bresson.
Respirando su registri evocativi così potenti, la Binoche si concede di sperimentare le più segrete pulsazioni della recitazione attoriale, come se trattenesse davanti allo sguardo un ventaglio di accadimenti e potesse di volta in volta indirizzarsi verso questa o quella soluzione.
Mauvais sang si giustifica esclusivamente come una sperimentazione portata all’eccesso, come officina di immagini che pretende di rinnovarsi ad ogni inquadratura: macchina da presa che persegue l’angolatura inedita per ogni frammento di realtà, senza trascurare l’infimo dettaglio.
Carax è così sedotto dal primo piano del volto di Juliette, dall’incantamento che esso suscita nel perimetro dello schermo, da escogitare in sceneggiatura le soluzioni più vantaggiose.
Prima che Anna, il suo personaggio, faccia irruzione nella trama, passano venti minuti, durante i quali la scena è catturata dalle soavi dispute tra il protagonista Alex (l’attore Denis Lavant) e la sua apollinea fidanzata, Lise (l’attrice Julie Delpy), che di Anna diverrà il soave contrappunto esistenziale.
Tanto più Anna sarà introversa e tenebrosa, tanto più Lise è la ragazza colma di vita, ebbra di desiderio, che avrebbe sempre voglia di fuggire in motocicletta e rubare ad ogni tornante la sessualità del suo scorbutico compagno.
Il loro dialogo si apparecchia con intonazioni di questo tipo:
Lei: «Quando una ragazza apre le gambe, ci sono tanti segreti che volano via come farfalle».
Lui: «Ciao, piccola sfinge. Chiudi i tuoi occhi belli perché la vita è un sogno»…
E poche inquadrature prima di incontrare Anna, Alex scrive a Lise la lettera d’addio:
«Mia piccola Lise, io parto. È meglio che vada via, poi si vedrà. Ci sono certi momenti in cui non si può cambiare qualcosa senza cambiare tutto, in cui non si può rompere niente senza che tutto si rompa. Sto compiendo un crimine, lo so, ma io sono un killer, un assassino. Spero soltanto che le impronte che ho lasciato su di te spariscano presto. Non sperare sul tempo che passa, reagisci presto e dimenticami in fretta. Va a letto con i ragazzi che vuoi. Ti abbraccio. Per sempre e mai. Alex».

Juliette BinocheAppena compare il primo piano di Anna, lo spettatore deve – al pari di Alex – fronteggiarne la bellezza cupa e misteriosa. Anna è la ragazza inaccessibile, che gioca con il ciuffo di capelli sulla fronte, che rifugge lo sguardo diretto, ostenta il suo trovarsi sempre altrove, danza con gli occhi, ama volare e disperdersi.
Carax sa come manipolare quel volto rubato al cinema di altre epoche: lo cosparge di penombra, lo affida ad una luce tremola o scomposta, facendo in modo che risplenda di maggiore forza negli intervalli di tempo, nelle calcolate sospensioni.
Lui: «Mi piacciono tanto le tue labbra umide, sono come quelle delle attrici di un tempo».
Lei: «Ho fatto una brutta caduta quand’ero molto piccola, da allora quando comincio a piangere, non posso più fermarmi».
Lui: «Basta con le lacrime, Anna, voglio solo vederti sorridere!»
Lei: «Metti un disco, svelto, prima che la malinconia entri in noi».
E infine cedere allo straziante canto di Jacques Brel, congiungendosi con quel lirismo romantico che non conosce tregua.
Niente di più preciso di questo brandello per fissare l’atmosfera dentro cui l’attrice Binoche si è formata, assecondandone la tendenza decadente e indossando compiutamente la maschera della melancolia.

Juliette BinochePresentandosi cinque anni più tardi – 1991 – per la seconda prova con Leos Carax, messa di fronte ad una trama come Les amants du Pont Neuf, la Binoche non può che esaltare il valore dell’offerta: ritrova sul più antico ponte di Parigi il prodigioso compagno della prima ora – Denis Lavant – nei panni del clochard-sputafuoco, può offrirsi a lui nelle vesti di “monocola studentessa di Belle Arti”, condividendo l’isterico caos di due personaggi che transitano tra le rovine del mondo.
Ancora una volta Carax non rinuncia alla sua “morale” e vi trascina la sua attrice-donna: l’importante è che ci sia “Arte”, che la vita sia interamente sostituita dai fondamenti della tragedia greca – orgoglio ed eccesso – come fosse l’unica chance offerta ai miserabili abitatori di questo spicchio d’Occidente.
Tuttavia, se non si viene a patti con la poetica di gusto romantico, se si esagera in intimità con la zona Inferi, se la maledizione diventa confidenziale, se non si gioca di sponda e si pretende di esibirla ad ogni tornante dell’avventura umana… si rischia di risultare stucchevoli e inefficaci.
Carax, in questa seconda prova non bada a spese e attraverso la costruzione esagitata di personaggi in bilico di sopravvivenza, tenta di oltrepassare ogni limite consentito. Ma ciò che veramente costituisce il valore della prestazione della Binoche è proprio la sua volontà di assecondare il regista con oculata misura, con attenta dedizione al ruolo senza tuttavia farsi sovrastare dalle intemperanze della regia.
Nell’intervista a Frodon così si esprimerà: «Leos Carax aveva un tale amore per il cinema che era veramente difficile tenere il passo, trovare la capacità di rispondere alle sue richieste con altrettanta forza. Quando da ragazza venivo a Parigi, Leos mi faceva scoprire i grandi film della storia del cinema, e me li faceva amare. Soprattutto il cinema americano, in particolare Griffith e Charles Vidor».

Juliette BinocheSoltanto pochi mesi la separano dalla chiamata improvvisa e inattesa di un autore come Louis Malle, che guarda a lei come eroina di una passione d’amore che si fa ferocia tra le grida di fantasmi che si ridestano.
Sarebbe interessante sapere se nella scelta della Binoche da parte di Malle si celasse, più o meno deliberatamente, il proposito di sottrarre la giovane attrice dal circuito ossessivo delle ultime prove per impiantarla su un Set apparentemente protetto, fasciato di interiorità, di atmosfere interno-giorno o interno-notte, lungo le quali prevalgono le “voci di dentro”.
Perché se così fosse, un film come Il danno (“Fatale” nel titolo francese ) ci apparirebbe sotto altra luce. Quando uscì, fu accolto con scettico distacco dai cinefili (come dimenticare il Malle del ’58, Les amants?) proprio per il surplus di intimismo che esibiva, riconducibile storicamente – e politicamente – a una certa borghesia europea, non a caso effigiata nelle fattezze di un attore “scialbo” come Jeremy Irons.
Il quale, nell’apparenza del personaggio, è prima di tutto un abile politico inglese, leader del partito conservatore che si muove in totale accordo con lo spirito del romanzo di Josephine Hart (best-seller nel ’91, con vendite di cinque milioni di copie), annunciando la propria catastrofe nella virulenza di un desiderio dissennato.
Rispetto alla visionarietà vagabonda, a cielo aperto, di Carax, qui c’è la ricomposizione impeccabile dei ruoli e delle necessità. C’è il ricamo borghese dei convenevoli, delle occhiate furtive che celano ferite mortali, il drappeggio delle ossessioni mascherate: elementi distintivi di una narrazione a più strati, che lo sceneggiatore Davide Hare tenta di dirigere verso una non scontata complessità.

Juliette BinocheBinoche obbedisce diligentemente all’imbastitura delicata del ruolo, sa rimanere impettita di fronte alle ansie esagitate dell’adulto, sa mantenere la profonda ambiguità di colei che forse subisce forse dispone, iscrivendo sulle pieghe del volto il sottotraccia da cui la sua esistenza è segnata.
Lo scorgiamo anche nel modo di vestire, quando avvolge il corpo dentro ingombranti cappotti, come volesse dissimularsi nei drappeggi delle abitazioni che frequenta. (Il danno è uno di quei film nei cui titoli di testa andrebbe messo in risalto il ruolo del costumista, dell’arredatore e dello scenografo).
La scommessa è saper aderire ad un personaggio strutturalmente deviato, oltre che oltraggiato, che non rinuncia alla facoltà di “ragionare”, di “darsi spiegazioni”, come fosse convinto che la confusione drammatica dei ruoli abbisogna di ragionevole cura:
«Vuoi sapere di me e mio fratello? Mi voleva tutta per sé… è per questo che provo terrore verso ogni genere di possessività. Se hai voglia di immaginare la cosa peggiore che possa capitare ad una persona nell’arco di una vita, ecco, è capitato a me: mio fratello si è suicidato a causa mia. Dovevo prendere una decisione, dovevo sottomettermi, non ho voluta farlo. Ricordalo: chi ha subito un danno è pericoloso, sa di poter sopravvivere!»

Juliette BinocheÈ un film che costringe la Binoche a fare i conti – severamente – con la dimensione che chiameremmo “teatrale” dell’azione cinematografica. Il regista pretende che nella recitazione si sottolinei l’ampiezza del movimento scenico, anzi lo si esalti, correndo il rischio che ciò che si vuole scandalo di realtà risulti enfasi sopra le righe.
Juliette risponde intensificando la concentrazione espressiva, come se volesse prima di tutto provare a se stessa la consistenza del personaggio: emblematica la scena in cui si lascia scivolare ai piedi del letto allargando le braccia verso il suo amante, senza ancora aver chiaro se quel segno significhi resa totale oppure, al contrario, ribadisca la consapevolezza di chi presentendo il seguito della storia non vede l’ora che “trascorra”.
Quando poi, in altri momenti, il personaggio deve fronteggiare alcuni delicati e problematici nodi, correndo il rischio di restarne soverchiato, arriva in soccorso la voce della coscienza:
«So sempre riconoscere le forze che plasmeranno la mia vita. Lascio che facciano il loro lavoro. A volte investono la mia vita come un uragano. A volte mi spostano semplicemente la terra sotto i piedi, cosicché mi ritrovo in un luogo diverso dove qualcosa o qualcuno è stato inghiottito. Ritrovo l’equilibrio durante il terremoto. Mi sdraio, e lascio che l’uragano passi sopra di me. Non combatto mai. Dopo mi guardo intorno e dico: mi resta almeno questo, è fuggita anche quella persona cara. Sulla tavola di pietra del mio cuore incido silenziosamente il nome che se ne è andato per sempre. E’ una cosa straziante. Poi riprendo la mia strada»
Importante aggiungere che Anna (nome che Malle eredita da Carax) ritorna bellissima e misteriosa ogni volta che si consuma il “dopo”, quando la retorica del gesto passionale dilegua dal suo volto.

Juliette BinocheEcco, quindi, da quali continenti Juliette Binoche giunge all’appuntamento con il cinema di Krzysztof Kieslowski, già una volta rimandato: reduce dall’affresco del Decalogo, sbarcato in Francia su invito del produttore Marin Karmitz, il regista polacco pensa immediatamente a lei come protagonista de La doppia vita di Veronica, ma Juliette, sospesa tra Carax e Malle, non può offrire la disponibilità.
Decidono così di rimandarsi ad altra circostanza, che si concretizza appena Kieslowski e il fido sceneggiatore Piesiewicz concepiscono la Trilogia Trois couleurs, desiderando lei protagonista del primo “quadro”, Film Blu, che uscirà nel ‘93 (il secondo, Film Blanc, sarà affidato a Julie Delpy, “antagonista” della Binoche nel primo film di Carax, mentre il terzo – Film Rouge – apparterrà al talento di Irene Jacob, che ne “La doppia vita di Veronica” aveva preso il posto che doveva essere della Binoche: tutto si tiene).

Juliette BinocheMolto si potrebbe argomentare intorno a questa interpretazione, collocata ai vertici dello “sguardo” che il cinema d’autore porge alla persona dell’Attore. Con Kieslowski la caratura schermica della Binoche si manifesta e si esalta come fosse uno specifico luogo creato per lei, il palcoscenico della sala cinematografica diventa cosa sua: dimora fisica e celebrale di un personaggio che deve percorrere la trama del dolore, diventandone figura, quindi incidendo sul corpo le stimmate di un sentimento difficile da risolvere.
E Juliette Binoche, nutrendo la parte iniziale della sceneggiatura esclusivamente di sguardi trattenuti al limite dell’allucinazione visionaria, inventa soluzioni espressive che neppure la stagione di Carax aveva sperimentato. L’attrice deve confrontarsi con la profonda “mobilità” del silenzio, accettare che il tempo consacri il lento risvegliarsi di una vita spezzata che si ridesta al mondo, riconoscendone lentamente i connotati e le “parvenze”.
Parlare attraverso il silenzio, attraverso la forza e la sovranità dell’immagine, è concetto già teorizzato e messo in atto dal regista polacco fin dall’epoca dei suoi indimenticabili  drama-documentaries o documentari sociali: un cinema che attraverso le immagini sappia “pensare e ragionare”, sappia allestire le Idee.
Forse non c’è prova più “nobile” cui possa essere chiamato l’Attore: che la presenza si imponga con la forza e la costanza del proprio apparire, del proprio trovarsi sulla scena, nell’alveo del primo piano che sottolinea e suggella definitivamente la “scelta” e l’occasione di abitare uno spazio alternativo.

Juliette BinocheCosì, per i primi lunghissimi e sconvolgenti undici minuti, il film è unicamente nella sovranità dell’attrice-demiurgo Juliette Binoche: una torcia di dolore, avvolta nelle bende della disperazione, squarciata dal lirismo delle musiche di Zbigniew Preisner.
L’incantesimo si frantuma con l’arrivo di una giornalista che inizia a fare domande, mutando direzione all’incantamento sospensivo delle immagini: vuole sapere se è lei che scriveva le musiche del marito compositore, se dietro il successo di lui si celasse il talento di lei. Da quel momento inizia l’andamento narrativo, la riconquista della vita da parte della donna, quindi l’adesione ad una sceneggiatura che culmina nel colpo di scena finale.
Alla fine del percorso di rinascita, Julie scoprirà che la prova più atroce da accettare – come ben sottolinea Serafino Murri in una monografia su Kieslowski pubblicata nel ’96 – è “non aver potuto uccidere il suo passato perché in realtà le era sconosciuto”. Il coniuge irreprensibile – a cui Julie dettava le imbastiture musicali rimanendo sempre fuori scena e lasciando a lui il merito artistico  – aveva in realtà una doppia vita sentimentale, era legato ad un’altra donna, che al momento dell’incidente e della morte rimane in attesa di un figlio.
Per l’attrice Binoche si tratta di accogliere e padroneggiare un significativo cambio di passo tra le due condizioni: dall’iniziale dramma interiore affisso nel mutismo dell’angoscia senza parole alla lenta ricostruzione, che comporta dover riconoscere una nuova articolazione di vita, rinvenire l’alfabeto di un linguaggio che l’incidente ha mutilato.
È questo il nodo critico – irriducibile e problematico – con cui ciascun Attore deve inevitabilmente scendere a patti: il corpo a corpo con il Copione, con la pagina scritta, che precede e affianca il lavoro sul Set e che condiziona non poco il rapporto con l’autore-metteur en scène.
Sappiamo che le risposte sono diverse e disparate: attori che leggono velocemente il copione, gettano via i fogli e si consegnano al loro istinto; attori che per non turbare l’andamento del set raccolgono minuziosamente le parole e i sottintesi della sceneggiatura tentando di tradurli nell’azione; attori che sfidano a viso aperto le convinzioni – e le convenzioni – del regista, trasformando il set in una disputa incessante di “punti di vista”, tra timori e tremori che si moltiplicano e si diffondono perigliosamente sull’intera troupe.
Anche per la Binoche rimanere nel giusto tono non è facile: messa di fronte alla pratica dell’azione che la sceneggiatura prevede dopo gli undici minuti iniziali, l’afflato recitativo perde di intensità, si affievolisce, sicché la straordinaria potenza di quel volto capace di trovare le cifre più segrete e ineffabili – lasciando affiorare già nel ticchettio delle palpebre la nuda condizione umana – si smorza, lasciando il posto all’ansia didascalica di un personaggio in trasformazione.

Juliette BinocheUsando una fortunata formula pasoliniana di antico retaggio, la recitazione “poetica” della prima parte cede il passo alla recitazione “prosastica” dell’impianto successivo, che vuol dire sostituire alla poesia del gesto attoriale trovato nel momento e risolto nel proprio spazio di libertà, la prosa del dialogo, delle battute, insomma il filo doppio che lega e collega l’Attore alla trama.
Alcune impressioni della Binoche a riguardo, si ritrovano nella conversazione con Frodon:
«Un giorno Isabelle Huppert mi ha detto: “Bisogna mettersi contro il regista, trasgredire le sue volontà”. Sul momento, quelle parole mi hanno turbata: io per molti anni ho lasciato prevalere il lato ‘piccolo soldato’ obbediente. Già al tempo di Rendez-vous ero la signorina Sì-Sì. Poi ho scoperto che potevo essere autonoma e a volte finanche prevalere. Non si tratta necessariamente di uno scontro ma di suscitare una relazione, uno scambio, dove ciascuno si muove in libertà: il confronto può far nascere una scintilla. Dirò di più: l’attore deve essere a volte un po’ maligno, perfido, prendere ciò che il regista gli offre e farne qualcosa verso cui proiettarsi. Naturalmente, il rapporto cambia da regista a regista».
Puntuale altresì la “sottolineatura” di alcuni brani del libro di George Sand, Il teatro e l’attore (1858) – a cui la Binoche ha spesso amato riferirsi – dove si esalta “l’antica tradizione del teatro italiano chiamata Commedia dell’arte: Juliette rivela di preferire «l’Attore realmente creatore, che conquista il ruolo con la sua intelligenza e crea egli stesso il personaggio, le battute, i dettagli del carattere nonché l’audace dialettica».

Juliette BinocheIn conclusione, val la pena citare un curioso episodio del faticoso tournage di Film Blu, che si trova tra gli “extra” dell’edizione italiana del Dvd (uscito nel 2008 per la Multimedia San Paolo). Nella breve conversazione in cui la Binoche si abbandona, con l’emozione del rimpianto, a riesumare dalla memoria alcune istantanee del suo impegno quotidiano con “l’amico Kryzstof”, racconta di una scena piuttosto difficile da comporre e da risolvere, che culmina nel primo piano dell’attrice.
Kieslowski la “costringe” a ripetere decine e decine di volte quel ciak, al limite dell’esasperazione. Quando giunge il fatidico “buona” da parte del regista, Juliette lo rincorre e gli urla: “Spiegami perché questa volta andava bene rispetto al ciak precedente, erano uguali, l’ho fatto allo stesso modo”.
E Kieslowski: “Non è vero, una differenza c’è stata: in quest’ultimo ciak hai deglutito”.

(Febbraio 2014)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.