Nella stravagante giostra di illazioni supposizioni “se fosse”, di Wanted affissi sul frontone della basilica del Villaggio, di cani-segugio sguinzagliati a ghermire l’odore dei soldi, nel clamore che il Nome Elena Ferrante sta suscitando nei due emisferi occidentali, affiora un dettaglio trascurato ma di primaria evocazione, irrompe l’ospite inatteso, il viaggiatore “cerimonioso” e muto, rimasto in piedi allo scoccare del banchetto nuziale, che espone l’effigie e le stimmate di un sublime, indimenticato scrittore-disegnatore della migliore stirpe polonaise: Bruno Schulz.
Scrittore votato al nascondimento di sé, a una dissimulazione accorta e spietata, rimasto tutta la vita nel cantuccio della propria tana nascondiglio – una cittadina chiamata Drohobycz, nella Galizia polacca, oggi Ucraina, dove era nato nel 1892 – imprigionando la vastità del mondo nel piccolo accampamento di stoffe e velluti che il padre Jakub, venditore di tessuti, gestisce con ebraica sollecitudine, generando nella mente del figlio una progenie “pagana” di spettri e irrequiete apparizioni, un florilegio di fantasmi che nulla hanno da invidiare alla più addestrata letteratura dell’ebraismo militante, deflagrando infine in un immaginario narrativo-figurativo di mirabile potenza ed efficacia.
Di sicuro il suo Nome non arretra se accostato ai maggiori provocatori di enigmi letterari nei decenni cruciali del primo e del secondo dopoguerra, si affianca anzi a due dioscuri come Witold Gombrowicz e Stanislaw Ignacy Witkiewicz, insieme ai quali il nostro – più appartato, remissivo, docile – costituisce appunto il terzo anello, il terzo “moschettiere”.
Nomi che in Italia sbarcano clandestini tra i primi smottamenti degli anni ’60, quando la letteratura ancora collimava con la rinascenza delle anime (chi ha dimenticato l’urlo di sgomento dinanzi all’improvvisa pubblicazione di Cent’anni di solitudine?), quando ci si scopriva lettori-carbonari, trafugatori di lingue e linguaggi alternativi, fraternizzando con eroico furore per i romanzi di Gombrowicz, tradotti nella nostra lingua da Riccardo Landau, per Bompiani/Mondadori prima (Pornografia) per Feltrinelli poi (Transatlantico, Cosmo), che ne completò il lascito restituendo in versione italiana anche i meravigliosi Diari 1953-1956 e Diari 1957-1961, essenziali per svelare l’impalcatura storico-critica da cui originavano quelle deviazioni culturali.
Nel 1970 anche Bruno Schulz affronta gli scaffali delle librerie italiane, sotto l’autorevole marchio Einaudi, per la traduzione di Anna Vivanti Salmon e su diretta indicazione di Italo Calvino che firma la fascetta di copertina, indicandolo come un maestro della prosa novecentesca, mentre la presentazione dell’opera e del personaggio è affidata allo slavista per eccellenza, Angelo Maria Ripellino; nel 2001 ci sarà la prima ristampa a tutto tondo, con l’aggiunta dei disegni, dei Testi critici e autocritici e dei Testi politici, impeccabilmente accudita da Francesco M. Cataluccio che porge infine nella postfazione il profilo completo dell’avventura schulziana.
Scrittore incisore disegnatore, che da subito cerca conforto e riscatto nella forza dell’immaginario puro, nella volontà infantile del “mondo a parte”, il cantuccio felice dove scrittura e disegno-immagine possano riscattare la pena del vivere quotidiano, ciò che già nei titoli si fa imminente presagio dell’altrove: Il libro idolatrico (1922), Le botteghe color cannella (1933), Il sanatorio all’insegna della clessidra (1937), La Cometa (1938).
E il tema, il viluppo critico da sbrogliare, è la Materia, la materia che si vorrebbe costituire, realizzare come Forma, quindi compiutezza dell’essere, ma che invece, nell’ostinazione di una longeva Immaturità, rimane informe, imperfetta, indefinita, tramutandosi incessantemente, svelando di continuo “maschere” inaspettate, quindi dando corso a universi alternativi dove i fenomeni fluttuano indistinti, senza più essere riconoscibili e forse assumendo, proprio in virtù di ciò, la valenza di arte.
«A quel tempo la nostra città già stava precipitando nel grigiore cronico del crepuscolo, già si copriva ai margini di un’eruzione d’ombra, muffa pelosa e muschio color ferro (…) Abitavamo nella piazza del mercato, in una di quelle case scure dalle facciate vuote e cieche, così difficili da distinguere l’una dall’altra. Ciò era motivo di continui errori. Giacché una volta entrati in un portone sbagliato, su per una scala sbagliata, si penetrava generalmente in un vero e proprio labirinto di appartamenti sconosciuti, di ballatoi, di uscite impreviste su cortili ignoti, e si dimenticava così lo scopo originario della spedizione, finché, dopo molto giorni, reduci da deviazioni strane e tortuose avventure, allo spuntare di un’alba grigia ci si ricordava fra rimorsi di coscienza della scala paterna». (La visitazione)
Una materia nel soffio nascente, che si torce si espande si distende per deliri figurativi, affastellando narrazioni e contesti dominati dalla transitorietà: apologhi o allegorie valicati da personaggi chiamati al mondo dell’arte per testimoniare unicamente il proprio asse minoritario, per ribadire che si nasce e si cresce nella marginalità del creato, come attori di un caos irrimediabile, non ricomponibile.
«Chissà, – diceva mio padre, – quante forme dolorose, mutile, frammentarie della vita esistono, come quella artificiosamente incollata, frettolosamente inchiodata degli armadi e dei tavoli, legni crocifissi, martiri silenziosi della crudele ingegnosità umana. Orribili trapianti di razze d’alberi estranee e avverse, incatenate le une alle altre in un’unica infelice individualità (…) Devo tacere, – diceva abbassando il tono della voce, – che mio fratello in seguito a una lunga e incurabile malattia si trasformò progressivamente in un rotolo di tubi di gomma e che la mia povera cugina, notte e giorno, lo portava sopra un cuscino, canterellando all’infelice creatura le ninne-nanne senza fine delle notti invernali? Può forse esservi cosa più triste di un uomo trasformato in un tubo di clistere? Che delusione per i genitori, quale disorientamento nei loro sentimenti, quale fine per le speranze da loro riposte in quel giovane così promettente! Eppure l’amore fedele della mia povera cugina gli era vicino anche in quella metamorfosi» (Trattato dei manichini).
Proprio la prassi minoritaria, la propensione a sospingere la marginalità, la “minorità”, la deviazione a soggetto di narrazione – prassi fin troppo frequente nella letteratura nel teatro e nel cinema di questi nostri anni – in Bruno Schulz, come in Gombrowicz e in Witkiewicz, non si risolvono fittiziamente nella pretestuosità del rito narrativo ma si stringono, si annodano all’humus poetico, connaturandosi all’atto della creazione, facendosi materia vivente, atto concreto di trasfigurazione.
Si entra così, per davvero, nella forma “straniata”, estranea, impartecipe, per sempre “divagatoria”, infinitamente distante e irriducibile, comunque di altra “natura” rispetto al percorso accidentato della realtà quotidiana; la metamorfosi è divenuta regola di riconoscimento tra i personaggi mentre il padre Jakub dal suo negozio di tessuti e pannilani orchestra le danze, rammentando di continuo al figlio indolente e ignavo quanta “divinità” si cela nei fenomeni che chiamiamo “naturali”, quanta filosofia danza nelle mille acrobazie della materia che compone e scompone, affastella e destabilizza, facendosi atto o testimonianza della Creazione originaria:
«Il demiurgo, il Creatore dell’Universo non ebbe il monopolio della Creazione; la Creazione è un privilegio di tutti gli spiriti. La materia è dotata di una fecondità senza fine, di un’inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare».
Eppure questa materia che Schulz chiama “entità indifesa del cosmo”, seppure attiva e volenterosa, rimarrebbe sterile e artisticamente di traiettoria limitata se non fosse sostenuta da un’attesa escatologica che prefiguri la forma-visione di un Mondo che deve arrivare, che non si è affatto palesato e i cui bagliori, ancora incerti tra degradazione e redenzione, rivestono le pagine dell’ultima raccolta: il Libro illustrato Il Sanatorio all’insegna della Clessidra.
Qui, il personaggio-Io, che si chiama Józef, affronta un viaggio tra lande spettrali e disabitate per ricongiungersi, ancora una volta, con il padre Jakub, ricoverato nella clinica dove il Tempo ha mutato forma e scansioni e si è ridotto a immemore lontananza:
«È vivo mio padre? – domandai affondando lo sguardo inquieto nel suo viso sorridente.
– Certo che è vivo, – rispose il dottor Gotard, sostenendo con tranquillità il mio sguardo di fuoco. – Naturalmente nei limiti concessi dalla situazione, aggiunse socchiudendo gli occhi. – Lei sa bene quanto me che dal punto di vista della sua casa, del suo paese, suo padre è morto. Ormai non c’è più rimedio. Questa morte getta qualche ombra sulla sua esistenza di qui.
– Ma mio padre, personalmente, non sa, non intuisce? – domandai in un bisbiglio.
Scosse la testa con profonda convinzione.
– Stia tranquillo, – disse con voce sorda, – i nostri pazienti non intuiscono, non possono intuire… Il trucco consiste in questo: abbiamo retrocesso il tempo».
Nella indefinitezza di luoghi e accadimenti, dove il Sanatorio è il nascondiglio di spazi remoti abitati da chissà chi (“l’ignominioso imbroglio di cui siamo vittime”), dentro le coercizioni di un paesaggio naturale imprecisabile e imprevedibile, che forse obbedisce alla medesima logica di distorsione del tempo, una parvenza di vita riconoscibile, tangibile c’è ancora, se è vero che il padre Jakub ha riaperto il negozio di stoffe (“non c’è ancora insegna ma anche così lo trovi di sicuro”) e Józef lo vede arrampicarsi con l’energia di una volta tra gli scaffali, svolazzare da un angolo all’altro, esibire la merce, dare ordine agli aiutanti, rivelatisi indolenti e scansafatiche, rimproverare con le parole di sempre il figlio che si smarrisce in fantasie erotiche, rimanendo tutto il tempo a guardare le donne piuttosto che mettersi a servizio dell’infermo genitore.
«In negozio mio padre lavora alacremente, porta avanti transazioni, impiega tutto il suo brio per convincere i clienti. Ha le guance accese per l’animazione, gli occhi gli brillano. In Sanatorio è a letto gravemente ammalato, come nelle ultime settimane a casa. Difficile nascondersi che il processo si sta avviando rapidamente verso la fine fatale.
Con voce debole mi dice: “Dovresti venire più spesso in negozio, Józef. I commessi ci derubano. Vedi bene che non posso più far fronte ai miei impegni. Da settimane sono a letto ammalato, e il negozio va in malora, lasciato in balia del destino. Non c’era posta da casa?”.
Comincio a deplorare tutta questa impresa. Non si può dire che abbiamo avuto un’idea felice mandando qui mio padre, attratti da una rumorosa propaganda. Retrocessione del tempo… effettivamente suona bene, ma a che cosa corrisponde in realtà? Arriva forse qui un tempo pienamente valido, onesto, un tempo in certo senso appena svolto da una pezza fresca, odoroso di novità e di tinta? Tutto il contrario. È un tempo usato, consumato dagli altri, un tempo logoro e bucherellato in più punti, trasparente come un setaccio. Niente di strano, questo è un tempo vomitato – non vorrei mi si fraintendesse – un tempo di seconda mano. Che tristezza, mio Dio!...».
Che dietro tali esercizi di disperante virtuosismo letterario, che negli anfratti inconoscibili e anonimi di una scrittura che si vuole metafisica, si celi l’ombra sovrana di Franz Kafka, non sarà sfuggito. E Schulz se ne appropria interamente, mutuando dalle sue pagine sia il motivo della metamorfosi che il tema della “caduta”, la caduta originaria, quindi la frattura con il mondo reale, reso astratto e inospitale, con uomini e cose ridotte a parvenze, ombre allucinate, come traspare anche nei disegni dell’uno e dell’altro.
In una lettera che Schulz spedisce all’amico Andrzej Plésniewicz nel ’36, si legge: «Il genere d’arte che mi sta a cuore è appunto la regressione, è l’infanzia reintegrata. Se fosse possibile riportare indietro lo sviluppo, raggiungere per qualche via circolare un’infanzia reintegrata, avere ancora una volta la sua pienezza e la sua immensità: sarebbe l’avveramento dell’“epoca geniale”, dei “tempi messianici”, che da tutte le mitologie ci sono promessi e giurati. Il mio ideale è di “maturare” verso l’infanzia. Solo questo sarebbe l’autentica maturità».
Se dal sanatorio si esce con la consapevolezza di un tempo manipolato, un tempo “di seconda mano”, che fa sì che il padre “muoia molte volte, mai completamente, sempre con certe riserve”, nel romanzo successivo e conclusivo dell’itinerario letterario e spirituale di Bruno Schulz si rimane in attesa dell’arrivo di un Messia che finalmente componga o ricomponga l’interezza del Tempo, restituendo altresì una credibilità storica ormai dispersa.
Purtroppo, il romanzo Il Messia non arrivò mai ai lettori perché perduto in circostanze ignote, il manoscritto non fu ritrovato, addirittura si sospetta che possa essere finito nei forzieri del KGB di Mosca e che prima o poi una mano accorta saprà ritrovarlo. Rimangono due frammenti che testimoniano la preminente e indomata forza letteraria di Schulz, alle prese con un crescendo simbolico di altra potenza e finalità rispetto alle precedenti prove: due frammenti i cui titoli potremmo porre a suggello dell’intera traiettoria: Il Libro e L’epoca geniale.
«Ci avviciniamo ora a gran passi a quell’epoca meravigliosa e catastrofica che nella nostra biografia porta il nome di epoca geniale. Invano negheremmo che fin d’ora sentiamo quella stretta, quel sacro timore che precede i momenti estremi. Ben presto ci mancheranno nella tavolozza i colori e nell’animo la luce per apporre i più alti accenti, sottolineare i più luminosi e ormai trascendentali contorni di questo quadro. Che è mai quest’epoca geniale e quando fu? (…) I fatti comuni sono schierati nel tempo, allineati lungo il suo corso come su un filo. Là essi hanno i loro antefatti e le loro conseguenze, che si affollano e si susseguono senza tregua né interruzione. Ciò ha la sua importanza anche per la narrazione, la cui anima sono la continuità e la successione.
Che fare invece degli avvenimenti che non hanno il loro posto nel tempo, degli avvenimenti verificatisi troppo tardi, quando ormai l’intero tempo è stato distribuito, suddiviso, ripartito, e che ora sono rimasti in certo modo per aria, non incolonnati, sospesi vaganti e senza dimora? Che il tempo sia troppo ristretto per tutti gli avvenimenti?».
Degli avvenimenti che non hanno avuto il loro posto nel tempo, che sono rimasti “vaganti e senza dimora”, non trovando aedi e scrittura per venire alla luce, essere ammessi e autorizzati, Kafka ci aveva tutti addottrinati, resi consapevoli. Da Kafka il Novecento era stato convocato per avere in affidamento una parte di mondo sensibile che non si era ancora reso riconoscibile; nato nove anni dopo lo scrittore praghese, Schulz sarebbe stata la perfetta, rigorosa incarnazione del Cacciatore Gracco dell’omonimo racconto: l’uomo ostinatamente vagante e recalcitrante tra la vita e la morte, che si riconosce negli intervalli sospesi del tempo e scopre il suo essere nel mondo soltanto nei riflessi fuggevoli che di tanto in tanto attraversano lo spazio dov’è collocato.
Pochi anni addietro il romanziere ebreo-statunitense Philip Roth disse allo scrittore israeliano David Grossman che Isaac B. Singer gli aveva confidato che in un angolo remoto della Galizia orientale era nato e vissuto “un autore più kafkiano di Kafka”, “un ebreo polacco di madre tedesca”, morto in circostanze drammatiche nel ’42, assassinato per strada, in pieno giorno, da un ufficiale nazista che aveva voluto vendicare un torto ricevuto da un suo pari grado, della cui protezione lo scrittore aveva goduto. (E il suo corpo non venne mai ritrovato).
Ritornando al tema da cui ho preso le mosse – il “caso” editoriale nato e costruito sull’identità di Elena Ferrante, tema che da alcuni anni inebria i titoli e le pagine del giornalismo culturale e su cui è depositato un indizio che più di ogni altro pare acquisire vantaggio, ovvero che sia la traduttrice Anita Raja la probabile ispiratrice e scrittrice materiale dei fortunati romanzi – non sarà vano rammentare la “corrente” di pensiero lungo la quale i due Nomi si ritrovano appaiati.
Nel ‘36 Bruno Schulz tradusse, in collaborazione con la fidanzata Józefina Szelińska, Il processo di Kafka; Anita Raja si dedicò al medesimo compito nel ‘95, curando per l’editore Feltrinelli una nuova versione italiana del romanzo, che riprendeva il testo dell’edizione critica apparsa in Germania nel ’90, di fatto scavalcando le traduzioni – canoniche – di Ervino Pocar del ‘71 e di Giorgio Zampa del ‘73.
Ma Anita Raja fece qualcosa di più: volle che la nuova traduzione del Processo fosse preceduta dalla “Prefazione” con cui Bruno Schulz aveva accompagnato il suo lavoro del ’36: un saggio che si rivelerà di notevole consistenza nel vastissimo corpus degli studi kafkiani.
Ecco, quindi, i due titoli finalmente appaiati: L’epoca geniale, L’amica geniale. Uniti da un aggettivo che in lingua italiana si presta all’eccesso, a emanare una leggera dissonanza, a pesare più del dovuto appena entra in contatto con il sostantivo di riferimento. Ma che in questo caso attrae nella medesima orbita i due Nomi.
Voglio dunque a buon diritto ritenere che se la traduttrice Anita Raja fosse la reale protagonista-affidataria del “mistero” Elena Ferrante, quel Titolo altro non sarebbe che il desiderio di tendere una tenera mano al fratello minore di Franz Kafka.
(Ottobre 2016)