Se ci domandiamo quanto sia distante da noi, per intensità e autorevolezza, la “trilogia” a cui abbiamo legato il nome di Joseph Losey – L’incidente, Il servo, Mr. Klein – scopriamo senza troppo stupore che i suoi “anni cinematografici” sono prossimi e ci ghermiscono ancora con la forza del richiamo.
Se poi esaminiamo la condizione presente, che vede il suo cinema scomparso dal quadrante delle grandi occasioni – come fosse disperso, non avvistato, poco segnalato – viene da temere che si stia cancellando dentro di noi il “gusto” del farsi spettatori, spettatori adulti, che altro non è se non la coscienza di uno sguardo attivo, consapevole, che il bombardamento delle immagini, cui siamo sottoposti senza argini, sovente ci preclude.
Rivisitando oggi i “caratteri” ferocemente ambigui delle creature-personaggio che Losey ha deposto sulla scena, generati quasi sempre da un’idea estrema, deviante, inquietante – sopra cui si imponeva il perverso gioco di una trama che spesso ne scombinava i presupposti, facendoli dilagare verso altre destinazioni – viene spontaneo ritenere che si trattasse di un cinema in perenne tensione sperimentale.
E che fosse soprattutto una terra di fantasmi: fantasmi-clandestini, individui attraversati da una penombra esistenziale che sempre più va corrompendosi o intorbidandosi dentro un ambiguo mistero che la Storia si incarica al contempo di “certificare”.
Mr. Klein, uscito nel ’75 e presentato l’anno successivo in concorso per il XXIX Festival di Cannes, ne è sotto molti aspetti l’esito finale, proprio per la virtù di compendiare e riportare in superficie alcuni temi risolutivi del suo cinema e della storia del ‘900: la ricerca dell’identità perduta, la condizione di straniamento, di fuga disperata dalla contemporaneità, l’ineluttabile solipsismo di una borghesia perennemente in bilico tra atarassia e responsabilità.
Temi e conflitti che in controluce restituiscono ogni volta la delicata questione dell’appartenenza, sia in chiave storica che in chiave esistenziale, così bene riflessa nei tratti del personaggio Robert Klein, mercante d’arte cinico indifferente grossolano, che per un banale caso di omonimia si trova costretto a prender su di sé un “tragico” che pensava non dovesse mai spettargli.
Egli scopre di non essere il solo referente del Nome Klein: c’è un altro Mr. Klein, un ebreo appartenente alla Resistenza, ricercato nella Francia occupata di Vichy, tenutario della medesima identità anagrafica, che vive parallelamente a lui, fissando le tappe di un secondo destino che finirà infine per “convergere”.
Una machine narrativa implacabile, ideata dall’arguzia e dall’intraprendenza intellettuale dello scrittore-sceneggiatore Franco Solinas, che trova il suggello fatale nella scena conclusiva quando il nome “Robert Klein” viene pronunciato dall’altoparlante del Velodromo d’Inverno, il 17 luglio del ’42, dove sono ammassati i deportati ebrei che partiranno verso i Campi di Concentramento nazisti.
Cosa accade? Un braccio si alza, una sagoma per noi ignota e indistinta, avvolta dentro un impermeabile bianco, si incammina: è forse lui – ci chiediamo – il “vero” Mr. Klein? Se è così, il “nostro” Klein, il Klein che abbiamo seguito per l’intero film – e che ha i connotati dell’attore Alain Delon – potrebbe ritenersi finalmente salvo, potrebbe “sganciarsi” dall’enigma narrativo che ha tenuto lui e noi inchiodati alla “trama”, potrebbe dichiararsi fuori da quella che si profila come una “caduta” in un cattivo destino.
Vediamo che anche il suo avvocato si sbraccia, lo chiama, strizza l’occhio con gesto di complicità: vuole fargli intendere che ogni cosa si è sistemata, ogni equivoco appianato, anche il commissario di polizia è convinto che lui non sia l’altro, non il Klein ricercato, non l’ebreo-semita che la polizia segreta sta cercando. Può quindi tranquillamente partire, emigrare o tornare alla sua vita precedente.
Il “nostro” Klein invece cosa fa? Assume la “chiamata” come sua, segue i passi del probabile Klein perseguitato, si accoda insomma alla marea umana che sta per infilarsi dentro uno dei bracci secolari della morte.
Più che la leggendaria e fin troppo citata epopea della lettera “K”, declinata in chiave kafkiana o pirandelliana, a me pare che Franco Solinas, cogliendo lo “spirito” più profondo e acuto del cinema di Losey (Il servo, 1963), intendesse innescare un meccanismo di pura dialettica negativa da cui lo spettatore può estrarre un solenne monito. Ovvero: tanto più si fa visibile e inequivocabile – quindi mostrata e dimostrata – l’identità del Robert Klein di cui il film è “testimonianza”… tanto più acquista verità storica filosofica morale l’identità del Secondo Klein, colui che non ci è dato vedere, colui che vive fuori del campo narrativo di cui noi, come spettatori, siamo lecitamente parte.
Se così fosse, la collaborazione-correlazione ideologica tra regista e sceneggiatore, tra Losey e Solinas, potrebbe dirsi attuata, convergendo nel cuore culturale e politico delle rispettive biografie: la vita “vera” la possiede chi, seppur nell’ombra, si fa soggetto di Storia e non chi ne vive i “riflessi”, non chi di quella Storia è soltanto un pallido relitto, segregato tra le mura di casa, inebriato dalla penombra dei dipinti della propria collezione, tenutario di feticci e fantasmi del tempo che non muta.
Il Klein del film, quello “finto”, l’antiquario borghese opportunista e solipsista che si fa vanto della propria inaccessibilità, nella scena finale si mostra attraverso un finestrino a grate, con lo sguardo piantato e immobilizzato “sulla grande pinza con la quale un poliziotto stringe i sigilli”. Dentro quello sguardo immoto, inebetito, guizza fuggevolmente l’aquila della Storia, da cui finalmente è stato raggiunto, seppure nella più brutale delle “espressioni”: destinazione Auschwitz!
E mentre scorrono i titoli di coda – Un film prodotto da Alain Delon ecc – riflettiamo sulla triade che ha originato l’opera: Franco Solinas/Joseph Losey/Alain Delon, lo scrittore-sceneggiatore, il regista, l’attore-interprete-produttore. A cui andrebbero affiancate due figure altrettanto decisive sul set: i direttori della fotografia – Gerry Fisher e Pierre William Glenn – che configurano una tonalità visiva che si nutre di eccesso di realismo e lo scenografo, Pierre Duquesne, che a quegli spazi offre un’inedita dimensione tragico-onirica.
Il film entrò dunque in concorso per il Festival di Cannes dell’anno ’76 ed è indubbio che avesse tutti gli elementi per raccogliere premi e riconoscimenti: la Palma d’oro e/o il Premio per la migliore regia, e/o il Premio per la migliore interpretazione maschile, il Premio speciale della Giuria.
Una giuria che sulla carta pareva assortita e “amalgamata” per l’occasione, con Nomi di sicuro affidamento, a cominciare dal presidente, il drammaturgo Tennessee Williams. Ne facevano parte i registi Andrea Kovacs e Costantin Costa Gravas, gli scrittori Mario Vargas Llosa e Georges Schehadé, l’attrice Charlotte Rampling, il produttore Mario Cecchi Gori, il pittore francese Jean Carzou.
In concorso opere e autori di primo piano: Nel corso del tempo di Wim Wenders, La marquise von O di Erich Rohmer, Vizi privati pubbliche virtù di Miklós Jancsó, L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski, Babatu di Jean Rouch, Crìa Cuervos di Carlos Saura, Taxi driver di Martin Scorsese.
Due i registi italiani in concorso: Ettore Scola e Mauro Bolognini (con i film Brutti sporchi e cattivi e L’eredità Ferramonti).
La Palma d’oro se l’aggiudicò Scorsese, il Premio della Giuria venne conferito ex aequo a Rohmer e Saura, il Premio dell’interpretazione maschile a José Luis Gomez, il Premio per la migliore regia a Ettore Scola.
Mr. Klein fu completamente ignorato: nessun premio, nessuna menzione speciale. Esito che ancora oggi appare incomprensibile.
All’incirca due anni più tardi, Joseph Losey, di stanza a Parigi – impegnato nella preparazione del Don Giovanni, film che uscirà nel ’79 – accetta di “intrattenersi” con due agguerriti e puntigliosi critici della rivista Cinématographe, per discutere a tutto campo dei suoi film e della sua condizione di regista-autore diviso tra l’America di Hollywood, da cui fu espulso e messo all’indice negli anni sciagurati del maccartismo, e l’Europa – intesa come Italia Inghilterra e Francia – sua terra di elezione.
I due critici sono Philippe Carcassonne, capo-redattore della rivista, e Michel Devillers, membro del comitato di redazione.
Losey dà loro appuntamento in un appartamento situato tra Boulevard Saint-Germain e Rue de Rennes. Dopo le strette di mano e i convenevoli, il regista rammenta ai due cultori di cinema che proprio in quel crocevia di strade è avvenuta la sparizione e la morte di Ben Barka, leader del movimento indipendentista del Marocco, scomparso nel ’65 mentre si apprestava ad incontrare il regista Georges Franju per discutere il progetto di un documentario.
Colti di sorpresa da questo “incipit” inatteso, i due redattori balbettano in tono scherzoso: “Lei non corre alcun rischio, Mr. Losey: noi siamo due innocui critici cinematografici!”. “Nessuno è innocuo”, chiosa Losey con voce grave. La conversazione può dunque avere inizio.
(Riporto in versione italiana la prima parte dell’intervista, che affronta anche il film in oggetto).
Cinématographe
Mr. Losey, noi crediamo che ci sia una stretta corrispondenza tra la sua opera cinematografica e quella teatrale. È il segno della sua formazione?
Joseph Losey
Questa è una domanda che spesso mi viene posta: ho iniziato a occuparmi di teatro durante la formazione universitaria, a 22 anni ho prodotto e messo in scena la mia prima pièce a Broadway, città dove ho allestito quindici spettacoli in dodici anni. Gli inizi cinematografici furono tardivi – avevo 39 anni – e in continuità con l’impegno teatrale: il Galileo di Brecht lo portai in scena in quel periodo.
Non ho preferenza per l’uno o per l’altro, cinema o teatro, anzi la distinzione che se ne fa mi lascia perplesso. Negli anni ’40 e ’50 ciò che di meglio si faceva in teatro guardava già verso il cinema, verso una sorta di montaggio esaltato dalla luce e dalla regia. Tuttavia, è giusto considerare “teatrale” il mio cinema: ogni volta che ne ho la possibilità faccio uso di piani-sequenza ininterrotti che consentono agli attori di recitare senza tagli o interruzioni, sebbene non consideri questa una regola assoluta.
I miei temi sono più o meno sempre gli stessi, come accade, credo, per ogni processo di creazione: nuclei forse ossessivi che forniscono l’impalcatura del lavoro. Tento anche di variare e di certo ci sono differenze sostanziali, non soltanto tematiche, tra King and country (“Per il re e per la patria”) e Modesty Blaise. Ma il modo in cui un film è finanziato, la classica dicotomia arte-industria, produce sempre conseguenze: quando ho iniziato a lavorare in teatro, era possibile affrontare soggetti impegnati, “di sinistra”, ciò che a Hollywood sarebbe stato impensabile.
Nella metà degli anni ’30, ho passato sette mesi in Unione Sovietica per studiare teatro: ho assistito alle ultime prove teatrali di Mejerchold, ho fatto molte tournées in Ucraina e a Leningrado e sono tornato con una importante collezione di documenti, che ho offerto alla Biblioteca di New York.
Nel ’48, ho realizzato il mio primo film di finzione. Poco tempo dopo mi sono trovato nella Lista Nera dei registi non graditi e sono quindi partito per l’Europa. Da quel momento ho avuto più libertà al cinema che in teatro, sebbene – ripeto – reputi questa separazione fin troppo superficiale.
Certo, dipende dagli autori: ci sono cineasti che non potranno mai allestire una pièce e viceversa. Per quanto mi riguarda, lavoro sia in teatro che al cinema con materiali dello stesso tipo, forse anche con la stessa “visionarietà”, se posso dir così, di certo i “contenuti” sono spesso similari.
Cinématographe
Come ha vissuto la sua condizione di regista impegnato? Lei, tutto sommato, si è ripreso rapidamente dall’editto della Lista Nera…
Joseph Losey
Dipende da come ci si impegna. L’impegno è questione di responsabilità individuale: se lo si pratica bisogna aspettarsi reazioni che a volte sono positive, altre volte no.
Molte persone sono morte a causa dell’editto di McCarthy: J. Edward Bromberg, John Garfield, Adrian Scott. E altri, come Alvah Bessie, hanno visto le loro vite distrutte. Alcuni sono ancora sulla Lista Nera, quella Lista di fatto non è mai stata abolita. Io ho avuto la fortuna di trovare accoglienza in Gran Bretagna, una terra che rispetta i diritti civili. Sono stato privilegiato per aver ottenuto l’appoggio dei Sindacati: mi ha permesso di riprendere a lavorare in fretta e di riabilitarmi. Non posso lamentarmi.
Cinématographe
E ai personaggi dei suoi film quali “principi”, quali insegnamenti possono applicarsi?
Joseph Losey
Non si può generalizzare. E non sarò certo io a dare lezioni, dopo aver girato Per il re e per la patria. Non conosco più le risposte, a patto che le abbia avute prima.
La “rottura”, quindi l’impegno, nella mia vita sono arrivati presto, dal giorno in cui ho lasciato Hollywood. La mia vita adulta si divide in tre o quattro periodi: inizialmente, una fase politica che coincide con l’attività teatrale e che si svolge a New York; una seconda che avviene a Hollywood, dove ho girato cinque film; segue il soggiorno in Europa, che rappresenta qualcosa di completamente nuovo, anche se i miei primi film “inglesi” sembrano figli bastardi di Hollywood; infine la pagina nuova, di oggi, che inizia con Mr. Klein.
Cinématographe
Proprio Mr. Klein sembra riprendere alcune tematiche di film precedenti, come Il servo, Eva o L’incidente: film nei quali la questione direttamente politica sembra passare in secondo piano.
Joseph Losey
Prendiamo L’incidente: non è un film politico, o almeno non è un film che affronta direttamente una tematica politica. Eppure, mostrando una società decadente, in declino, il discorso politico si fa comunque presente, è un discorso che mi riguarda, che riguarda qualcosa che conosco bene. Ad esempio, di un film come Le strade del sud non direi che si tratti di un film politico, anche perché non riguarda distintamente un tema “politico”. Ritengo invece che Mr. Klein sia un film interamente politico, sebbene la maggior parte della critica creda il contrario. Il senso si potrebbe riassumere così: vi racconto cosa accade quando si è indifferenti al destino degli altri, quando di se stessi si dice: “Io non sono ebreo, né musulmano né comunista: queste categorie non hanno niente a che vedere con me!”. Proprio ciò da cui ci si vuole categoricamente distanziare, ciò che riteniamo estraneo a noi, che a noi non riguarda, si vendica e ci precipita addosso, sia in termini di responsabilità reali che di auto-distruzione. Questo è un film che percorre anche un delicatissimo periodo della storia francese, un’epoca storica che i francesi fanno fatica ancora oggi a riconoscere, a studiare, a discutere. E noi – io e Franco Solinas – abbiamo voluto che ogni elemento storico, ogni ambiente del film fossero scrupolosamente autentici. Questa è già, a mio parere, una precisa presa di posizione “politica”.
Cinématographe
Noi abbiamo la sensazione che per lei il rapporto oppressore/oppresso o padrone/schiavo faccia parte integrante del rapporto vittima/carnefice.
Joseph Losey
Sì, certamente. In una società brutalmente vessatoria, ci sono poche differenze tra la vittima e il carnefice, anzi il “tiranno” finisce sempre per opprimere se stesso e la vittima finisce per andare oltre, superarsi.
Da anni intrattengo una fitta corrispondenza con il critico del Los Angeles Time, Charles Champlin, che ha scritto una recensione di Mr. Klein. È un ottimo critico, un critico avveduto, consapevole, come non se ne vedono tanti in giro.
Ebbene, Champlin ha stroncato Mr Klein e malgrado io non condivida alcunché del suo articolo, sono rimasto parecchio seccato da questo intervento sfavorevole, sia perché vorrei presto far ritorno negli Stati Uniti, sia perché i suoi testi critici mi sono sempre piaciuti, li trovavo giusti, sensati, e anche perché per me Mr Klein è forse il più importante film che abbia fatto, proprio ciò insomma che la critica stenta a riconoscere.
Così, ho avuto voglia di scrivergli e pochi giorni fa ho ricevuto una sua lettera di risposta, seria e intensa, nella quale mi diceva che non aveva notato mutamenti significativi nel modo di agire e di rapportarsi del personaggio Robert Klein, non aveva perciò capito se ciò che gli accade, il destino cui va incontro, sia da ascrivere ad un’ossessione, una auto-punizione o molto semplicemente una presa di coscienza. Ho a lungo riflettuto e credo che risponderò nei prossimi giorni: ciò che posso dire è che a me non importava mostrare un mutamento nel carattere di Mr. Klein. Più che di presa di coscienza, parlerei di un’ossessione. Ha assunto l’identità di un altro individuo, di un ebreo che lo irretisce e lo castiga dentro tutte le sue problematiche.
A lui scatta la curiosità e il desiderio di conoscerlo, per capire se c’è qualcosa in quest’uomo sconosciuto che possa trovare o ritrovare in se stesso, qualcosa che a lui manca. Ecco perché va verso la morte, del tutto irrazionalmente: egli non era destinato alla morte.
Io questa storia l’ho vista così, forse avrei dovuto far intervenire un vero scambio di persone, di personalità. Ma per me la cosa rilevante era far capire al pubblico che ciò che accade a Mr. Klein può accadere a chiunque, da un giorno all’altro. Quale che sia la ricchezza, il potere, anche se si è ariani, se non si è impegnati politicamente, qualunque sia il posto che occupiamo nella società… una cosa del genere può succedere. Anche chi non si preoccupa della sorte degli altri esseri umani, può subire il medesimo trattamento.
Forse Champlin ha ragione: questo film sarebbe stato più importante, più accettabile, se il personaggio avesse conosciuto una diversa evoluzione. Ma io non so se avrei potuto fare altrimenti… il film che ho fatto è questo!
(Aprile 2015)