Ho atteso con desiderio impaziente – in questi primi sei mesi che corrono verso l’ottantesimo genetlìaco di Jean-Luc Godard (3 dicembre) – che si compisse l’ordinario/necessario miracolo di costituire un movimento di opinione, tra gli addetti ai lavori come tra i fruitori di una certa area culturale, avente come unico scopo di convocare a una seria ricognizione la vita, la carriera, l’uomo, il cineasta, il personaggio “Godard”.
Stavo per scrivere “consacrazione”, sapendo di utilizzare provocatoriamente un termine antigodardiano: “consacrazione” allude a una fissità storica che, fortunatamente, non ha mai fatto parte della fibra sempre inquieta e trasgressiva di quest’uomo nato con la macchina da presa; del resto, soltanto poche settimane ci separano dalla prima visione mondiale della sua ultima prova (anch’essa coerentemente e imprevedibilmente “godardiana”), in quel di Cannes, luogo nel quale abbiamo atteso invano che il maestro si mostrasse, come il direttore del Festival aveva a lungo auspicato.
Delusione e rammarico: è mancata la sua “presenza” sulla Croisette con il sigaro tra i denti, è mancata la sua voce in conferenza stampa, il modo di sgusciare obliquo tra le domande, di aprirsi varchi imprevisti e consentirsi risposte-labirinto, dentro le quali veder trionfare ancora una volta il suo ordine rovesciato.
Delusione e rammarico: è mancata la sua “presenza” sulla Croisette con il sigaro tra i denti, è mancata la sua voce in conferenza stampa, il modo di sgusciare obliquo tra le domande, di aprirsi varchi imprevisti e consentirsi risposte-labirinto, dentro le quali veder trionfare ancora una volta il suo ordine rovesciato.

L’ultima sua prova, quella presentata a Cannes, si intitola Film Socialisme – titolo già parecchio impegnativo – ed è un prodotto che ancora una volta ci obbliga a fare i conti con la sua dottrina dell’immagine: l’augurio da fare ai tanti che non hanno avuto modo di vederlo è che compaia prestissimo in qualche caritatevole circuito televisivo, anche a tarda notte (ne vale proprio la pena!). Ma la “consacrazione” che qui auspico è di altro genere: è venuta l’ora, è giunto il tempo di togliere a Godard la nicchia inquieta e profetica dentro la quale si è ritirato, protetto, asserragliato, negli ultimi venti-venticinque anni e riproporlo alla “luce” della nostra ansia di conoscenza e di comprensione del presente: un presente che nella indefinita storia contemporanea si è reso sempre più parziale, sfuggente, inafferrabile, come ben sanno coloro che a questo mestiere, a questo vizio chiamato cinema si dedicano, sacrificando tempo energie salute denaro, in condizioni produttive spesso disperate! E allora, Godard!

La questione Godard, infatti, fin dagli albori (e parliamo del 59-60, se si sceglie come pietra miliare “A’ bout de souffle”) è questione che non riguarda la sopravvivenza, l’efficacia o l’attualità di questo o quel film, di questa o quella prova; a Godard va dato atto di aver trasformato dalle fondamenta l’approccio al cinema pensato e al cinema realizzato, di essere intervenuto sulle leggi ancora non scritte della settima Arte, lungo una traiettoria che è di stampo “critico” ancor prima che “filmico”.

Una generazione cresciuta nel buio visionario di minuscole sale, nel ghetto recintato dei cinema d’essai – “nell’ombra studiosa delle cineteche” (Rohmer) – che scopre e ridefinisce il sistema Cinema attraverso categorie di lettura e di approccio strutturale che fino a quel momento il cinema non ha previsto. E non avrebbe potuto prevederlo perché non era ancora stato scoperto un grimaldello critico che assegnasse all’immagine cinematografica il pieno statuto morale e ontologico, oltre che estetico e spettacolare.
Rovesciando o sovvertendo gli antichi parametri di approccio e fruizione del sistema-cinema, rendendolo al massimo grado autonomo e concreto, la generazione degli anni “éblouissantes”, come li definirà Jean-Charles Tacchella, innalza al rango di cinema d’autore registi e opere che quella sovranità non avrebbero, altrimenti, mai conquistato: Hitchcock, John Ford, Orson Welles, Howard Hawks, William Wyler e così di seguito, rischiarando poi di conseguenza l’intero giardino del cinema europeo, promovendo e fissando parametri di “autorialità” che innalzano al massimo livello espressivo cineasti come Bunuel, Bergman, Fritz Lang, Rossellini, Antonioni, Bertolucci.

Godard viene fuori da lì, si forma dentro quelle sale, accorgendosi abbastanza presto che a lui, a loro, spetta anche andare all’assalto diretto della realtà, fissarla su pellicola, “trattenerla” dentro un modo di inquadrare, di concepire e sviluppare le inquadrature, insomma assumersi una diretta responsabilità operativa. Ovvero: impugnare la macchina da presa e farne “fronte di lotta” della contemporaneità, lungo direzioni che sono fin dall’inizio ideologiche, poetiche, politiche.
Quale bersaglio, infatti, il giovane regista-autore sceglie come terreno di battaglia e di confronto? La “modernità”, appunto! L’esercizio della modernità, la messa in funzione o il disvelamento dei linguaggi che la modernità sta generando incessantemente, intersecandoli e contaminandoli. Quella stessa “modernità” che si scopre aliena, alienata, deturpata dall’irrazionalità di uno sviluppo economico che crea fossati e dislivelli di vita e di culture. Dal ’60 al ’67 – prima stagione del suo cinema – Godard concepisce e realizza 15 lungometraggi e 7 cortometraggi: una cifra che impressiona, se si pensa che oggi in Italia un autore-regista nello stesso volume di anni riesce, forse, a portare a compimento un solo titolo.

C’è una forza motrice che pervade quel cinema, una energia che lo fonda e lo rifonda, lo contiene e lo sostiene, senza mai cedere all’esaurimento. E il vero protagonista dell’epopea godardiana è l’uomo del ‘900, l’individuo che si è voluto moderno a tutti i costi, mescolando e confondendo i linguaggi, facendosi egli stesso macchina, feticcio, corpo alienato, simulacro.
Gli esempi riferibili sarebbero innumerevoli, basta sfogliare quel cinema, quei film, per imbattersi incessantemente nei temi e nelle tematiche dentro cui è attestato anche il nostro “qui” e il nostro “oggi”. Prendiamone uno, soltanto uno, a titolo di esempio: “Deux ou trois choses que je sais d’elle” (“Due o tre cose che so di lei”), anno ‘66, dove la “lei” è in piccola parte riferibile al personaggio Juliette Jeanson interpretato da Marina Vlady e in massima parte a Parigi, città-cantiere in continua formazione nonché città-agglomerato di contraddizioni.

Juliette è sposata con Claude, che lavora in una officina meccanica. Hanno due figli. Abitano dentro un immenso comprensorio della periferia sud di Parigi, dove attecchiscono alveari urbani di mille anime, intreccio spasmodico di esistenze in formazione, natura deturpata, ruspe perennemente in movimento, rumori inarrestabili di pale meccaniche.
Il quotidiano di Juliette si snoda ordinariamente tra uscite rientri soste: mentre il marito celebra le sue dieci ore in officina, lei vagabonda per la Città, incontra un’amica, va dal parrucchiere, entra nei caffè, parcheggia la figlia in una sorta di asilo-nido a pagamento gestito da un anziano custode, che in una stanza fa giocare i piccini e in quella accanto conduce coppie bisognose di intimità.

La camera di Godard la segue con ironico distacco, sovrapponendo al suo volto un catalogo di effetti scenici pescati nelle immagini colorate e patinate delle riviste di moda e che ben pitturano l’immaginario di una modernità frenetica e assordante, tra una coca-cola, il nero della tazzina di caffè o la pallina di un flipper che si dimena assordante, prima che un violoncello lirico si arrampichi esausto, a rammentarci il carattere polifonico di quella sintassi.
Finché, dentro questo pulsare di immagini, si intrufola la voce fuori campo dello stesso Godard, che sussurra frasi apodittiche del tipo: “Dov’è dunque la verità? Di faccia o di profilo? E un oggetto, che cos’è?”, descrivendo un mondo in cui “le rivoluzioni non sono più possibili, le guerre sanguinose ci minacciano, il capitalismo non ha più certezza dei suoi diritti, la classe intellettuale è in ritirata, il progresso delle scienze in declino… e l’avvenire è più presente del presente”.


Se nel panorama attuale è diventato utopia che un cineasta si riconosca nello sguardo cinematografico di un altro cineasta suo contemporaneo, ciò è conseguenza dello smarrimento di quello spirito collettivo che inizialmente è stato un punto di forza del cinema d’autore.
Un cinema che oggi pare aver smarrito i suoi migliori e redditizi presupposti: situato in una postazione incerta e ambigua, attende di essere ritrovato e ri-definito, sempre che a conti fatti non prevalga la drastica opinione di coloro che lo considerano una chimera ideologica, priva oggi come ieri di ragioni e regole sostanziali.
Ben venga allora Godard, ben venga il “pre-testo” Godard, se può servire ad illuminare le nostre menti su domande come queste. Ecco perché mi spingo ad avanzare la proposta, che la Sardegna possa in autunno promuovere alcune “Giornate” dedicate a Godard e al cinema d’autore, per le quali convocare alcuni testimoni autorevoli di quell’antica e irripetibile stagione chiamata Nouvelle Vague, in modo da metterli a colloquio e a confronto con la realtà, le potenzialità e le utopie dei cineasti del presente.
Nel nome e nel segno di Godard, dunque… Anzi: Fino all’ultimo Godard, se può servire a capire quel che il cinema d’autore è stato, quel che potrebbe essere.
(Dicembre 2010)