Dobbiamo essere grati a Rita Corsa per il ragguardevole lume di pensiero critico che ha acceso riguardo all’opera grafico-artistico-visiva di Alberto Soi: un contributo apparso pochi giorni or sono sul sito web della Società psicoanalitica italiana, nella sezione “Psicoanalisi e cultura”.
Non credo di esagerare se affermo che dopo la presentazione-esposizione dell’ultima opera, Barocco digitale – dicembre 2016, presso la Libreria Sulis di Cagliari – eravamo in attesa di una ricognizione storico-critica che svelasse, con metodo, le premesse e le teorie da cui Alberto trae di volta in volta “motivo” per le sue creazioni, fissando e stabilendo al contempo alcune invarianti, pur nel rispetto dell’eclettismo della sua ispirazione originaria.
Rita Corsa ha preso in mano questo “ufficio”, questo compito, attraversandolo e dispiegandolo in una prospettiva analitica, tramite un approccio-confronto diretto con l’autore, quindi nella vibrante “dialettica” di una intervista-conversazione, a volte cosi veritiera da evidenziare finanche una sagace inversione dei ruoli. Non potendo io esibire competenze specifiche dell’ambito dentro cui si colloca l’opera di Alberto Soi, mi limiterò ad alcune fugaci annotazioni di cultura-critica.
L’Intervista ci svela, per prima cosa, che l’impegno di Alberto muove da precise eredità storiche e culturali: si passa da categorie come esistenzialismo, surrealismo, scrittura automatica alla presa d’atto e contestualizzazione della “tecnica”, nella moderna accezione di “tecnologia”, come elemento dottrinale e regolativo del nostro “destino” contemporaneo. Al contempo, Alberto ci tiene a sottolineare che la sua non è “arte concettuale”, né tanto meno un manifesto di pensieri arrembanti, confessa finanche il timore di rimanere invischiato in qualche vincolo discorsivo che limiterebbe la sua volontà di azione diretta sulle cose, considera a lui estranea la tentazione di offrire la propria opera ai meccanismi – che ritiene forse farraginosi – di una “indagine estetica”.
Le uniche istanze attive e criticamente “forti”, che legittima come “proprie”, come a lui appartenenti, sono da cercare nella congiunzione tra fenomeni distanti diversi dissimili, forse finanche o soprattutto inconciliabili, “collegamenti” azzardati oppure correspondances di baudeleriana memoria, dove l’osservatore ha il compito sostanziale di decifrare il “senso” delle analogie: insomma una fatale conjunctio che Soi considera non dissimile da un “amplesso amoroso vitale e giocoso”. (“Accadono sincronicità fatali tra cose, e tra cose e uomini”).
Da qui la definizione, pertinente oltre che feconda, di collages psichici.
Inutile sottolineare che dinanzi a costruzioni complesse e perturbanti, dedite all’evocazione di un “mistero”, come è Barocco digitale, l’osservatore deve munirsi di un corredo di soluzioni problematiche, testimoniare che non si tratta di un “collage di immaginette sacre su piastre e altri elementi di hardware provenienti dallo smontaggio di computer” ma di una soluzione sperimentale – una “comunione simbolica” – che ha gloriosi antecedenti nella teoria del montaggio, la cui attuazione si è espansa dal cinema alla letteratura e alla musica.
Dinanzi a questa composizione abbiamo inteso echeggiare la pienezza del termine greco τέχνη, traducibile nella significazione della nostra lingua come “attività umana che porta a forme creative di espressione estetica”. Alberto si sentirebbe viepiù al sicuro se il termine greco τέχνη, dal greco antico tékhnē, corrispondesse alla “capacità pratica di operare per raggiungere un dato fine, in quanto basata sulla conoscenza ed esperienza del modo in cui è possibile raggiungerlo”. Ciò che, del resto, è il proposito imperativo del lavoro di grafico-performer che Soi sistematizza e realizza giorno dopo giorno.
Lungo questa traiettoria, e dinanzi all’incalzare giocoso-severo di Rita Corsa, Alberto si inoltra nel periglioso tema-concetto della “caducità”, parola oggi non più in auge, sostituita, rimpiazzata da termini come fugacità, precarietà, transitorietà, parola che non ha affatto esaurito la forza originaria, ancella ancora prediletta delle “filosofie” della crisi o della Krisis.
Alberto ci vuole far sapere che non gradisce che delle sue opere si faccia un uso continuo, il suo ideale è che lo sguardo, il régard, le prenda su di sé, le assuma con un brivido di discrezione e poi le distrugga o le consegni al silenzio. Insomma, le cose da lui generate, indagate, investigate, ricoperte di pensiero, di impegno, finanche di militanza, sono destinate a “svanire”. Non saprei dire se a distanza di tempo ritorni con la mente ad una delle sue creature, ho la sensazione che non accada, piuttosto immagino che siano esse, le sue opere, a lungo trattenute nel silenzio, ad interpellarlo da remote lontananze, insinuandosi di soppiatto in una osannante riviera d’autunno sardo e con circospezione misurata tentino di aggredirlo alle spalle. Ma se questo veramente accadesse, Alberto sarebbe lesto a indossare una di quelle “maschere”, digitali e ancestrali, che lo farebbero apparire – ancora una volta – irriconoscibile.
Nella zona finale dell’intervista-conversazione, Rita Corsa, avendo bene intercettato la fuga in solitaria dell’interlocutore, porge il tema della “scadenza”, dell’uso programmato del tempo delle opere, dell’eterno digitale-ancestrale che giunge a scadenza, a finitudine, in uno spazio concettuale (non me ne voglia Alberto se utilizzo questa parola) dove l’eternità del mito, del mythos, del mitologico, “si accoppia con il dominio autarchico di τέχνη”. Scrive Rita Corsa: «La cornice simbolica dell’oggi – costituita di circuiti cibernetici, microchip, schegge elettroniche – si trova in tal modo a conservare e preservare memorie passate. Sono oggetti pregni a loro volta di sensi antichi e ormai tacitati dalle vertiginose progressioni del tempo tecnologico».
Ecco declinato il rosario critico dell’avventura estetica di Alberto Soi: Tempo e Memoria, Mito e Tecnica, Icone tradizionali e cascami tardo moderni, Immagini devozionali e Circuiti cibernetici. La veglia critica a cui siamo convocati, da spettatori-osservatori, cerca le proprie “ragioni” all’interno di questa ampia costellazione di “motivi”.
Non potrebbe però considerarsi concluso il lavoro del critico della cultura se non esplicitasse un elemento dell’intervista, anch’esso “perturbante”, che si mostra sottotraccia e che concerne l’uso di parole che non possono più essere pronunciate, che non devono quindi apparire nello spazio analitico: parole “innominabili”. Una delle quali si affaccia vanamente nell’ordito dell’intervista, e proprio colei che avrebbe pieno diritto di pronunciarla si guarda bene dal farlo. Questa parola è: inconscio. Lungo tutta la conversazione, Alberto è convinto che Rita Corsa non potrà fare a meno di spendere la parola di cui, per diritto professionale, è o sarebbe la maggiore tenutaria. Alberto fa di tutto per precederla, la parola “innominabile” vuole pronunciarla lui, per eliminarla, bandirla dal “discorso”, anzi lanciando sornione una sfida del tipo “so dove vorresti portarmi ma non ti seguirò”.
Epperò Rita quella parola non ha alcuna intenzione di pronunciarla e difatti non la pronuncerà. Rita sa che dopo alcuni fortunati decenni nei quali quella parola è stata “irrinunciabile”, imprescindibile, fondamentale sia in ambito clinico che nel dibattito culturale, oggi pur mantenendo autorevolezza nell’ambito clinico, soffre di una inesorabile svalutazione in ambito culturale. Neppure è da escludere che mentre quella parola scivolava sulle labbra di Alberto, lei abbia sorriso di nascosto, rammentando che in anni lontani era stata attenta lettrice di un libro che si intitola La lingua salvata. Storia di una giovinezza, scritto da Elias Canetti nel 1977, parte prima della sua autobiografia, pubblicato in lingua italiana tre anni dopo dall’editore Adelphi e dove a pagina 23, a proposito di vocaboli e della scoperta di parole nuove, del rapporto tra infanzia e lingue originarie, si legge: «Non è come la traduzione letteraria di un libro da una lingua all’altra, è una traduzione che si è compiuta spontaneamente, nel mio inconscio, e, poiché io evito come la peste questa parola che ha perduto ogni reale significato grazie all’uso smodato che se ne fa, mi si voglia perdonare se l’adopero in questo solo e unico caso».
E allora il tema-problema, giunti a questo punto, quale è? È che le creazioni di Alberto Soi perseguono una strategia culturale che prevede l’esigenza di smantellare un catalogo, una costellazione di “mitologie” che soprattutto gli anni ’60 e ’70 hanno consegnato alle nostre sensibilità. Cancellarle in nome di che cosa? In nome di un principio originario ma ancora efficacissimo: che nell’operazione di smantellamento, mentre lo si compie, mentre lo si “agisce”, diventa possibile intravedere il nucleo dell’opera che verrà, un’opera quindi che allo spettatore mostra soltanto una parte “temporanea” del nucleo che “rappresenta”, la parte che temporaneamente è venuta alla luce, un’opera che attende quindi di svelarsi interamente e compiutamente, e che di certo non si svelerà fino a quando il fruitore-spettatore-osservatore non si sarà “disfatto” di certe eredità sterili, fallaci e ingombranti.
Rimane nei miei appunti una ultimissima notazione, forse fin troppo “laterale”, che l’opera dell’amico Soi mi ha sussurrato. Riguarda le domande e le questioni – imperative, urgenti, indifferibili – che quest’opera pone nel firmamento estetico-culturale, mi chiedo chi oggi si assume l’esigenza di prenderle in carico come strumento o pretesto di indagine, in quale ambito di ricerca – universitaria e non – questi “materiali” trovano accoglienza e udienza critica. Non saprei. Essi fluttuano, indeterminati, nel cosmo delle idee, in attesa che una seria e circostanziata Critica della cultura li sappia adeguatamente collocare. Vedo piuttosto che da alcuni anni cresce a dismisura, nella cultura italiana, una “categoria” di parvenus che si firmano giornalisti-scrittori. La loro audacia è cosi prorompente e prepotente da sfiorare l’improntitudine o la spudoratezza, magari oscurando o lasciando in ombra ambiti di studi e di applicazione che in solitudine e pazienza tentano di venire alla luce. Questo cruccio ha acuito in me il desiderio che riprenda vigore e coraggio una tempra di studiosi di cui l’Italia è stata nutrice formidabile, conquistando nei decenni ’50-’70 del secolo scorso un primato. Parlo della filologia e dei filologi. Già Friedrich Nietzsche, che da quella comunità proveniva, aveva speso per loro, nella parte finale della sua vita, una lacrima di rimpianto. Ecco anche per noi una nostalgia con la quale – o per la quale – convivere nei prossimi anni.
Rita Corsa: Ho conosciuto una Sardegna scontrosa, dallo sguardo brusco e ruvido. Un’isola dimentica dei bagliori che bruciano le sue interminabili coste lambite dal mare cobalto. Una Sardegna distratta da voci ossidate dal tempo.
Quanta pioggia che dorme
tra la mandria di nubi quanti
sciami di api pronti a fendere l’estate
e intanto l’isola slitta schiacciata contro il cielo
senza sorgenti e prati, senza colline
di mandorli e noccioli
senza – mai – fiori se non questi – dolcemente
radioattivi – anemoni di mare
(Antonella Anedda, Clima, isole, scorie, 2018)
Compagno di questo mio transito per camminamenti aspri e pietrosi è stato un singolare artista sardo, Alberto Soi, il cui gesto creativo spazia dalla grafica alla costruzione oggettuale polimaterica. L’ho incontrato questa estate, in una serata azzurra e fresca. La riva era lontana, eppure l’odore della salsedine si affermava con prepotenza, mitigato soltanto da una tenue fragranza di ibisco. Un paio di bicchierini di mirto ci ha aiutato nella conversazione.
Mi sono imbattuta nelle tue opere pochi anni fa, quando hai pubblicato Barocco digitale (2016), un’emozionante rilettura dell’iconografia devozionale filtrata da membrane digitali, che hai proposto come contenitori di memorie remote e universali. Ero rimasta folgorata dall’uso che tu facevi di codici attualissimi per interpretare figurazioni antiche. E viceversa. Ne ho già parlato in un altro mio intervento su SPIweb – il sito web della Società psicoanalitica italiana (L’arte delle tecnologie incarnate, 2017); ma di questo tuo recentissimo lavoro diremo dopo. Adesso vorrei partire da lontano e chiederti se la tua arte pianta le radici nel territorio sardo, o se origina da humus diversi.
Il mio rapporto con il suolo di nascita è strettissimo ed è fatto di affetto e di rispetto. Di conoscenza della sua storia e delle sue tradizioni, della sua geografia e della sua etnografia. La Sardegna è parte di me come i miei occhi, le mie mani, i miei polmoni… il mio cuore. Non ritengo però che la mia identità artistica sia ascrivibile esclusivamente alla mia terra natale.
Un destino mi sovrasta, quello della trasmissione mediante immagini del mio mondo interno e del mio modo di leggere la realtà. Un destino soggettivo nella formazione, nei processi esistenziali (e poi professionali), nell’espressione. Studi classici che, complici gli anni, mi conducono all’esistenzialismo, al surrealismo e all’anarchismo con le venature scettiche del luddismo nei confronti del progresso.
La mia soggettività artistica incontra, nell’impegno politico con il movimento anarchico sardo, la necessità di trasmettere ad altri contenuti politici e sociali e subisco il fascino della controcultura degli anni Settanta; tutto ciò che mi nutriva di forma e di senso proveniva da Milano, la Milano di Re Nudo (2), di Feltrinelli, di Samonà e Savelli, di Linus.
Finito il liceo classico, disilluso dall’esperienza politica e critico verso la formazione universitaria, ricerco – nell’intento consapevole della costruzione del mio “essere per sé” – gli estremi di altre esperienze esistenziali, da ufficiale della (regia) marina a operaio: costruivo linee elettriche in aperta campagna, meravigliosamente immerso negli umori della mia terra, ma costretto dalle condizioni di lavoro a portare in azienda la lotta sindacale iscrivendomi al PCI e creando una cellula FIOM. Licenziato per questo, arrivo finalmente a Milano…
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(Novembre 2019)