Estetica dell’ombra, della decadenza, della dannazione, del riscatto. Conversazione con Ferruccio Masini (1988)

La letteratura, la filosofia, la direzione (di vita) da prendere: nessun discorso (nessun itinerario) è conchiuso.
Kafka senza kafkismi.
Per un nichilismo attivo: lo scriba del caos.
Una prospettiva minoritaria: la scrittura come orientamento, non compimento, affermazione vitale (laus vitae).
Il non ordine del significato e la “malattia” irrazionalistica.
“Di me vorrei non si dicesse: Lei è obiettivo. Sarebbe falso, non sono obiettivo, né posso esserlo: devo vivere”.

Professor Masini, mentre arrivavo da lei mi tornava in mente l’attacco, il prologo di Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, che lei ricorderà bene. Dice: «Profondo il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile?» L’incontro con lei mi suscita la medesima domanda. Comincerei chiedendole se profondo e insondabile è il pozzo della sua riflessione critica e se è possibile identificare, in questo nostro breve incontro, un centro, un’anima che s’irradia tra tutti questi rivoli di pensiero, a cui lei ha offerto un respiro di eternità.

La sua domanda è opportuna perché costringe a scoprire, per così dire, le “batterie”. Nel senso che c’è veramente da chiedersi che profondità abbia questo pozzo, quale sia il suo fondo. Indubbiamente sono anch’io molto d’accordo con Thomas Mann quando parla della “profondità del pozzo del passato”, perché anche la letteratura è, come la vita stessa, un pozzo profondo e insondabile.
In definitiva, facendo letteratura e agendo sulla letteratura non facciamo altro che mettere in atto un tentativo, sia pure approssimativo e imperfetto, di decifrare il senso o il non-senso dell’esistenza. Non ho mai considerato il lavoro sulla letteratura come un qualcosa di puramente accademico, un lavoro disinteressato che si poteva scegliere di fare o non fare o per il quale un autore poteva essere comodamente permutabile con un altro.
No: quell’autore, quel campo d’indagine, quel tipo di problematica diventavano determinanti anche perché diventavano un “orientamento”, una via maestra e costituivano la messa a fuoco di un catalogo di problemi che mi interessava e che mi riguardava personalmente, direi quasi “visceralmente”; si trattava quindi di autori scelti con cura e attenzione, mai gratuitamente, che con correzioni diverse, con sfumature diverse, mi orientavano in una certa direzione.
Certamente, il problema era poi proprio quello della direzione: che cos’è una direzione, una direzione di vita? Credo sia importante insistere, a tal proposito, sulla necessità di non voler pretendere una reductio ad unum, una riduzione del molteplice ad unità, che può risultare – come spesso accade – artificiosa, una conversione di tutti i problemi ad uno solamente, onde fornire una soluzione onnicomprensiva. In questo senso, il mio atteggiamento è scettico, relativistico, direi quasi, per certi riguardi, nichilista: il non voler considerare conchiuso alcun discorso e alcun itinerario.
In realtà, i discorsi, così come gli itinerari possibili, si intrecciano tra loro, evidenziando soluzioni che possono essere, per dirla con Robert Musil, considerate parziali, ma che potremmo limitarci a dire semplicemente approssimative: soluzioni che rientrano nella fascia del negativo ma che in qualche maniera strutturano un nostro modo di essere… poiché indubbiamente da tutto questo deve nascere un modo di esistere non per la letteratura, deve nascere la traduzione di quest’ultima in un contenuto reale, di vita. Spesso si dice, in momenti critici, che la letteratura diventa una cosa inutile, in quanto ci sono problemi di vita e di morte, problemi-limite: cosa interessa Dostoevskij allorché si tratta ad un certo punto di uscire da una malattia? Cosa importa Kleist quando ci troviamo di fronte ad un problema esistenziale che ci riguarda da vicino, ad esempio la perdita della donna amata? In effetti, direi che questi problemi non sono poi così lontani, che c’è il modo di ricondurli l’uno all’altro. In fondo, aver letto seriamente Dostoevskij, averlo capito sia pure in parte, aver approfondito Kleist, può forse anche aiutarci a intendere il senso della perdita della donna amata, il senso di una malattia, perché siamo fatti di letteratura. Certo, anche l’essere fatti di letteratura è “malattia”, che però non significa esser fatti di carta; la letteratura si deve tradurre in qualcos’altro o deve, per così dire, affermare la sua quintessenza in altro; così acquista un senso profondo, si fa elemento concreto della nostra vita, quindi forma di conoscenza e di appropriazione del reale.

DANILA VASSILIEFF

Cominciamo a strutturare l’itinerario critico attraverso cui lei si è mosso, cominciamo a identificare gli autori e i modelli che accendono e illuminano questo passaggio. Quali sono stati e quali continuano ad essere i riferimenti essenziali?

Direi che in anni giovanili le mie predilezioni non riguardavano affatto la letteratura italiana, salvo forse Gabriele D’Annunzio, poiché in quest’ultimo c’è il piacere della forma e dunque ero in qualche modo sollecitato a quella che oggi potremmo chiamare l’Alchimia della parola, il gioco estetico dell’espressione linguistica. Ero soprattutto attratto da autori tedeschi e anche russi: Dostoevskij, come ho detto, ma in particolare Friedrich Nietzsche, che è stato l’autore da cui ho preso le mosse, un autore che mi si presentava in termini molto complessi, in quanto c’è questa apparente celebrazione della vita, questo culto del positivo, che poi ad un certo punto si rivela non sostanziale.
Insomma, una prima lettura di Nietzsche è falsificante proprio perché è il Nietzsche letto e passato al setaccio interpretativo dello stesso D’Annunzio, il Nietzsche esegeta della vita diversa, profeta del superuomo, il filosofo che esalta il senso dell’esistenza comunque essa sia; la laus vitae è Lebensbejahung, affermazione vitale.
Ma tutto questo è fuorviante. Ci sono tante zone d’ombra nella filosofia di Nietzsche e a me interessava entrare proprio in questi sotterranei. Ecco perché accanto a Nietzsche ho cominciato a leggere e a studiare gli autori romantici, in particolare, i primi romantici, Novalis, Friedrich Schlegel, e anche alcuni poeti contemporanei come Gottfried Benn o autori come Kafka: per fare in modo che le zone maggiormente complesse, problematiche, della scrittura emergessero in una luce più chiara e certe affermazioni globali venissero ridimensionate, ricondotte ai termini reali.
Quindi ho cominciato a leggere e a interpretare D’Annunzio in questo modo, proprio perché il motivo della tensione, della rottura, divenisse un motivo dominante. Devo dire, forse a mio torto, che questo motivo mi ha sempre interessato, ancor più che il momento della conclusione, della conciliazione, della sintesi hegeliana: il momento della frattura, della separazione, della divisione, oggi diremmo della differenza, il momento della non conciliabilità, dell’irriducibilità dei termini, dunque il momento drammatico.
Da quest’ultimo è partito il mio interesse particolare per tutta la letteratura mistica, poiché essa si fonda proprio su questa irriducibilità dei termini, sul fatto che non si possono far convergere e che nella loro alterità finiscono per significare comunque qualcosa, anche nella dimensione del non-significato, che è pur essa significante. Questo diventava per me l’elemento-chiave, ed ecco perché ritenevo di dover polemizzare o di considerare con spirito battagliero quelle posizioni razionalistiche o dialettiche di tipo idealistico che tendevano a integrare la realtà stessa in tutti i suoi conflitti.
In fondo anche lo stesso marxismo mi ha interessato soprattutto per gli elementi di rottura radicale: penso appunto a Bertolt Brecht, che combatte la sua battaglia, sia pure perdente, senza pretendere in alcun modo di costruirsi un travestimento che lo renda accettabile e che quindi giustifichi le sue affermazioni. Da qui  l’avversione per la tesi dottrinaria di un marxismo che si autogiustifica e si autocompone nelle proprie sintesi e nelle proprie soluzioni, e che si presenta come “compimento”: tutto ciò mi è sempre sembrato, anche negli anni di grande entusiasmo per il marxismo, per il neorealismo, per una letteratura di questo tipo, molto lontano, molto estraneo.
Quindi può darsi che sia stata la “malattia” irrazionalistica a determinare tutto questo, ma qui c’è appunto il grande discorso, a cui prima si accennava, dell’irrazionalismo, che non è da considerare una specie di malattia infantile del razionalismo e che è toto caelo altra cosa dal razionalismo, perché la complessità del reale è tale che gli strumenti per coglierla devono essere necessariamente molteplici; questo ce lo insegna la psicoanalisi, altrimenti non riesco a capire come essa potrebbe essere utilizzata in funzioni diverse. Freud ci insegna anche questo, perché altrimenti essa si qualificherebbe come una terapia: ma è soltanto una terapia? C’è anche qualcos’altro: essa è divenuta un elemento della cultura nel senso che seppure non si giunge ad una interpretazione rigidamente psicoanalitica di un’opera d’arte, la componente dell’analisi del profondo è tale da allargare lo sguardo sull’interiorità dell’opera stessa: ecco perché dico che i fatti di una determinata cultura sono sempre fatti complessi, non schematicamente riconducibili a funzioni e funzionalità fissate e concluse.

FRANCIS GRUBER

Mi aspettavo che lei citasse a un certo punto la parola “dannazione”, anche perché forse questo itinerario del negativo è in realtà anche un itinerario verso la dannazione. Del resto, lei ha parlato di Dostoevskij e quindi del tema dell’assunzione del negativo, che porterebbe immediatamente dopo all’esame di alcuni autori che a lei sono molto cari, come Kafka. Vogliamo specificare meglio questa costellazione?

Il richiamo alla “dannazione” è giustissimo perché è l’itinerario del negativo quello che mi sono sforzato di percorrere, quello in cui mi sono trovato, un itinerario che si presenta orientato in questa direzione, con elementi come l’ironia, che hanno modificato i termini delle questioni. L’ironia, in fondo, se per un verso pare attenuare il carattere perverso della dannazione, per un altro invece lo esaspera, lo approfondisce, fino ad arrivare finanche ad un capovolgimento paradossale dei termini.
La dannazione può essere anche “redenzione”, in un senso kafkiano; ad un certo punto verrà qualcuno nel passaggio da una cella all’altra e si dirà: “Questa volta costui viene per me”. Questo dato, inspiegabile, della “redenzione” intreccia il tema della dannazione, del negativo, ma si tratta sempre di una via che parte dall’alto, qualcosa che non è l’uomo a produrre: l’uomo non può produrre la propria redenzione, può creare le condizioni – diceva Kafka – per rendersene degno, può a un certo punto esasperare i termini della sua dannazione fino a provocare tale evento, ma è indubbiamente qualcosa che parte dall’alto.
Ecco perché nella mistica tedesca, in particolare in Meister Eckhart, ho trovato un’indicazione preziosa in tale prospettiva, dove si dice che l’iniziativa non è più dell’uomo, descritto come un essere spoglio, separato, distaccato da tutto, “dipartito”, un uomo che ha trovato il suo congedo dalle cose, direbbe George Trakl; in un certo momento si può verificare un evento, ma non è miracoloso, non è che trasformi la vita da un giorno all’altro o possa far sì che ciò che era negativo diventi positivo… è qualcosa di interiore che si determina e rende in qualche modo sopportabile la realtà, o che comunque proietta la realtà in una luce diversa: si tratta di vivere quel che vivo in maniera differente.

LEON SPILLIAERT

Ma questo prendere congedo dalla vita o dalla realtà dipende anche dal fatto – come diceva Kafka – che l’uomo non può raggiungere la verità?

Dell’uomo è indubbiamente una impossibilità  esistenziale, sarebbe troppo ottimistico o presuntuoso presumere che l’uomo possa uscire concretamente dallo status damnationis: certamente però il rapporto con gli altri, il dialogo con gli altri, sembra creare una prima condizione affinché si possa uscire da questo letargo, da questa narcosi del nichilismo.
Direi che, in questo senso, anche il nichilismo potrebbe essere utilizzato in senso attivo, come direbbe Nietzsche. Il nichilismo attivo prevede che arrivi a distruzione ciò che dev’essere distrutto, non voler conservare nulla di ciò che deve essere distrutto: ciò che è degno di morire, muoia. Questo potrebbe essere un atteggiamento esclusivamente negativo, ma può invece essere anche una condizione che svela la capacità dell’uomo di auto-trasformarsi: l’uomo è qualcosa che si modifica costantemente, che è capace di modificarsi attraverso il dolore, anzi, direi che è proprio il dolore che rende possibile, a un certo punto, l’apertura, il passaggio ad un’altra sfera, il guardare con occhi diversi: ciò che è in gioco, in questo gioco tragico dell’uomo con se stesso, è proprio la sua stessa trasformazione.
Indubbiamente, il discorso si fa qui molto aggrovigliato, intervengono elementi ironici e autoironici, interviene anche, a volte, il senso del proprio scacco, del proprio fallimento; comunque direi che la non fiducia nella ragione, il congedo da una ragione rassicurante, da una ragione hegeliana, è la condizione sostanziale per valicare il Lete.

PAUL SERUSIER

Al di là della ragione rassicurante, se comprendo bene, c’è la spiaggia dell’ironia: ma ironia e autoironia si qualificano come elementi necessari di un linguaggio che vuole essere anche nichilista?

Sono di certo elementi necessari, in quanto ogni affermazione non può più essere creduta nella sua inconfutabilità. L’ironia corregge l’indiscutibilità di qualsiasi affermazione e la svuota del suo contenuto; al tempo stesso, però, le offre in dotazione un contenuto diverso, in una prospettiva non del tutto negativa in quanto preparazione di una diversa formazione che non pretende più di essere totalizzante, commisurandosi alla realtà, alle concrete possibilità dell’uomo.
Inoltre, l’ironia apre, a mio parere, anche la dimensione “felice” dell’esistenza: la dimensione del gioco, della danza, della liberazione del corpo, nella quale non si ha tanto l’oblio di sé quanto il “de-condizionamento” da tutto ciò che rende l’uomo disumano. L’uomo raggiunge la sua umanità, la sua essenza umana, la sua autenticità, proprio nella condizione estatica. C’è una dimensione in cui all’uomo è possibile vivere nel senso pieno della parola, quando cioè si sciolgono, si frantumano, certi condizionamenti, certe riserve e paure che lo stesso essere umano ha nei confronti di se stesso: una dimensione nella quale si compiono anche certe trasgressioni e che vede l’elemento della negazione ironica legarsi proprio a quello della trasgressione.

Ma questo lo si potrebbe anche chiamare atteggiamento estetico?

Si potrebbe, certo, anche se non credo che la vita si risolva in cifra estetica: il fiat ars, pereat mundus non sarebbe il mio abito, perché quello che conta è in definitiva fiat mundus, pereat ars. In tutto ciò la dimensione estetica non ha un ruolo subalterno: insomma, l’arte può insegnare la voluttà del gioco e può concorrere a tale liberazione nel gioco.

Lei dice che non ha un ruolo subalterno però sembrerebbe restìo a concederle un ruolo primario.

Non vorrei concederle un ruolo primario per non precipitare, anzi addirittura per non inabissarmi, nello spirito della decadenza, perché se l’arte assume in sé il valore di una finalità assoluta, tutto il resto viene a cedere, a cadere. E non resterebbe che leggere Meister Eckhart in tale prospettiva. Devo anche saper controllare, in un determinato momento, il valore della mia partecipazione a questi valori, a queste esperienze, devo sapere quindi mortificare la mia aspirazione estetica anche se ciò potrebbe presentarsi come un atteggiamento contraddittorio.

MOMMIE SCHWARZ

Approfitto di tutto questo per catturare un’altra scheggia della nostra realtà storico-filosofica: Il Romanticismo, la parola “romanticismo”. Già da questi primi accenni ho registrato una cosa fondamentale del suo discorso: per lei l’essenza del romanticismo scaturisce proprio dalla negazione della Soggettività nella sua massima esaltazione.

Indubbiamente, questo è il mio riferimento al romanticismo: la Soggettività si esalta, ma semplicemente per tagliare il ramo dell’albero su cui è seduta. Nella décadence c’è appunto questo bisogno di auto-consumarsi, di annullarsi: ciò potrebbe essere considerato l’esito estremo del romanticismo; è come l’annientamento del principio di contraddizione a cui aspirava Novalis. Direi che proprio qui risiede l’elemento della malattia, sebbene in me ci sia l’elemento della tendenziosità: nel tentativo di riabilitare certe categorie screditate – com’è stato fatto da Nietzsche e da altri autori – devo necessariamente essere tendenzioso, devo porre l’accento su ciò che può mettermi in difficoltà e che accentua un elemento del reale. Ritengo di essere tendenzioso appunto in questo: nel sostenere le ragioni della décadence contro quelle della buona salute, di una salute efficiente, per cui tutto va bene. Ritengo di dover sostenere le ragioni di questo molteplice spettro razionale-irrazionale, che non si riesce mai a cogliere completamente, ma che Musil ha analizzato con analitica profondità. C’è dunque un elemento di tendenziosità a cui non vorrei sottrarmi, ho paura dell’obiettività, non voglio che mi si dica: “Lei è obiettivo”, in quanto ciò sarebbe falso. Non sono obiettivo, non posso esserlo poiché devo vivere.

Quindi lei è tendenzioso. Sarebbe interessante allora comprendere come, al di là di questa essenza del romanticismo, ci sia una deviazione così “diabolica” per giungere al cosiddetto “straniamento allegorico”. Dove sono fissate categorie nobilissime del pensiero novecentesco. Del resto, lei è uno studioso dell’allegoria nell’accezione proposta da un pensatore come Walter Benjamin.

Sì, perché questa è già una via di liberazione, che rappresenta bene un paesaggio in cui certe contraddizioni giungono non tanto a comporsi tra loro, quanto ad esibire una paradossale “coerenza”. In fondo, nel mondo trasfigurato dall’allegoria, le contraddizioni del mondo reale, pur non dissolvendosi, si presentano in funzione di un significato che non è più quello ordinario, e così si tratta di fare i conti con quest’altro ordine di significati. La vita, come la letteratura, comporta sempre ordini diversi di significato, tanto che si può arrivare a quel non-ordine del significato che è assenza di significato.
Vediamo in certa letteratura di oggi – ad esempio nelle teorizzazioni di Jacques Derrida – come si abolisca il significato: non si abolisce il segno significante, resta soltanto un significante che non comporta più un significato. Si ha il vuoto del significato e così si riapre nuovamente la via negativa della mistica, che è la via del non significato, del non significabile. Penso che questa sia una strada aperta, una strada necessaria, perché in fondo è proprio attraverso l’indicibilità del significato che si può parlare e tentare di capirsi, di intendersi. Intendersi attraverso la poesia: come è possibile comprendere la poesia di Gottfried Benn se non si supera la barriera del significato? Eppure Benn sostiene che chi parla non è morto; si tratta forse di celebrare un’ultima possibilità di “parola”, attraverso questa capacità di trascendere l’ordine del significato.

FRANZ MARC

Per rimanere sul terreno dell’allegoria e dei temi che essa suscita anche nella nostra stretta contemporaneità culturale: come mette insieme queste costellazioni varie e apparentemente difficili da intrecciare, ovvero Benjamin, Nietzsche, il nichilismo e il suo superamento, fino all’ultimo approdo straordinario da lei compiuto con Meister Eckhart, vale a dire la mistica?

Se legare insieme queste cose comportasse una razionalizzazione, cioè una sistemazione coerente di questi elementi, allora diventerebbe un’impresa assolutamente impossibile. Si tratta dunque di domandarsi: qual è il filo segreto che riunisce queste esperienze, per cui ad un certo punto l’una può andare d’accordo con le altre? Direi che qui il discorso si salda con le mie esperienze esistenziali, cioè con il mio modo di vivere, di pensare, di scrivere e di leggere gli autori; certamente ci può anche essere un passaggio repentino tra l’uno e l’altro; passare da Nietzsche a Benjamin comporta indubbiamente un salto; tuttavia, in qualche modo, dentro di me, un tale salto trova la sua ragion d’essere e così si legittima.
Il problema è molto complesso poiché si tratta di legittimare ciò che di per sé non sarebbe legittimabile, si tratta di fare dei salti, di passare ad un genere diverso, sicché anche il voler collegare questi elementi, sia pure sotterraneamente, rientra in un gioco premeditato, in una premeditata tendenziosità, di cui prima le parlavo. C’è anche, forse, non tanto il piacere del gioco, quanto una preoccupazione di sostenersi con elementi differenti, che possono per certi aspetti dare un contributo ad un discorso che è poi altro. Infatti non potrei sviluppare un discorso coerente su Nietzsche e su Kafka se non mettessi insieme l’uno con l’altro: ma metterli insieme significa sviluppare un discorso che “scarta” sia dall’uno che dall’altro, e punta forse soltanto su me stesso.

Per quali ragioni lei tende a prendere le distanze dalla quota di “emotività” e di emozionalità che si accende in un atteggiamento estetico? Immagino che lei si sia trovato spesso a navigare in questa contraddizione: controllare, da una parte, l’emotività prodotta dallo sguardo estetico e dall’altra vivere questa emozionalità come necessaria allo sguardo stesso. È così?

Questo raccordo è molto intelligente e sensato perché coglie proprio un punto fondamentale. Penso che quello che c’è di profondo e quindi ciò che merita profondamente la nostra partecipazione in una determinata esperienza emotiva, sia il suo sfumare, il suo arretrare, il suo risolversi compiutamente in un’esperienza estetica. Ho l’impressione che il distacco di un’esperienza emotiva da una sua trasfigurazione estetica, anche se questa avviene in maniera docile o inavvertita, sia inadeguato. Sento che in definitiva, al termine di una siffatta rimozione, ci sia la sua “irrealtà”, proprio perché questa rimozione non è costruttiva in nessun senso: ecco, questa irrealtà dell’emozione è l’arte.
Potremmo dire che l’arte è appunto quel momento di totale negatività, di totale irrealtà, che però rende l’emozione più profonda: lei riesce a trasfigurare il dato reale solo perché a un certo punto c’è un’ottica estetica in cui lo coglie e lo cattura. Ma non si tratta di legittimare – verbo che lei ha usato – delle ombre, vale a dire tutte quelle “figure” che stanno dietro a ciò che la realtà ci rappresenta?
Credo, insomma, che siamo necessariamente destinati a legittimare le ombre. Viviamo-  forse – soprattutto in un mondo di ombre e la realtà che si rappresenta a noi, quella non fatta di ombre, è una realtà inconsistente, che si sfalda, che non resiste, non regge. Quando riusciamo ad attraversarla, quando davvero  cominciamo a parlare con le ombre senza essere visionari, troviamo forse il tracciato profondo, lo strato profondo della realtà. L’importante, insomma, è sempre la realtà: ma di che cosa è fatta la realtà? Il fondo di questa realtà – o la sua superficie – non è forse fatto di ombre? Anche perché può darsi che il senso sia tutto nella superficie. Hofmannsthal diceva: “Dove sta il profondo? Il profondo sta nella superficie”. Allora dove sta il senso del corporeo concreto se non nell’ombra, nell’immagine?

Mi chiedo quale possa essere la collocazione di un autore controverso come Ernst Jünger in questo itinerario.

C’è un’ombra Jünger e c’è la biografia del Jünger militante, che è quella che è, alla quale possiamo rivolgere tutte le critiche possibili. Lo stesso discorso si pone per Martin Heidegger. Lei sa che oggi è venuto di nuovo allo scoperto il discorso sul nazismo di Heidegger. Ma, mi domando, si dà davvero un contributo alla biografia di Heidegger scrivendo un libro in cui si mettono in luce esclusivamente le sue connivenze di ordine burocratico con il nazismo? Non so, forse così facendo si tradisce il senso stesso di questa biografia, perché essa è fatta di “ombre”: come riuscire quindi a cogliere le ombre di Heidegger, che sono poi sostanziali, se non attraverso i suoi libri, le sue opere? Non credo che Heidegger sia un uomo – che ho anche conosciuto – al quale interessasse in particolar modo controfirmare una dichiarazione di vincolo politico e storico-culturale con il nazismo; quello che interessava a Heidegger era di scrivere Essere e tempo: questo è la sua grande ombra ed è qui che dobbiamo trovare il “nazismo” di Heidegger, se davvero c’è; altrimenti il discorso è del tutto inutile e si mistifica sostanzialmente la sua biografia.

HEINRICH STEGEMANN

Lei ha detto poco fa che la realtà che ci si rappresenta è inconsistente. A me interessa capire come lei guarda alla realtà quotidiana. Abbiamo trattato questioni-chiave, come idealismo, atteggiamento estetico, romanticismo, ma poche persone sanno che dietro a queste parole si cela un universo complesso, un universo intrecciato in forme sovranamente compiute composto di studi e ricerche, dell’opera di grandi scrittori, di grandi poeti, di grandi saggisti. Eppure queste parole finiscono poi nella giostra della nostra quotidianità giornalistica, finiscono nei mass media, e la gente crede così di conoscere l’essenza del romanticismo, dell’idealismo, della religione, della mistica. Di fronte a questo uso superficiale, lei, che è filosofo, poeta, passa la vita tra i libri,  elaborando e interpretando, come guarda a questi fenomeni d’involgarimento, di superficialità?

Il rapporto migliore che tendo a stabilire con questa realtà e quindi anche con questi fenomeni di imbastardimento, di trivializzazione – incluse le falsificazioni anche gestuali e feticistiche dei mass media – riesco a realizzarlo attraverso il rapporto con gli studenti. Credo sia importante questo fatto: gli studenti sono un campione di umanità che pare assorbire in sé tutti gli altri, diventando esemplare. Se riesco a dire qualcosa agli studenti, a offrire loro qualcosa, alcuni contenuti, e anche a suscitare il sospetto su quello che viene loro detto dalla stampa giornalistica, se riesco a farli ironizzare su tutto questo, a far capire che c’è qualcos’altro, e dunque a creare in loro quella insicurezza che diventa poi in definitiva il principio dell’autocoscienza – non dimentichiamo che Platone paragonava Socrate alla torpedine che dà una scossa, scuotendo, risvegliando chi viene colpito da tale violenta sensazione – ecco che mi pare, senza essere tanto ambizioso da pormi come una torpedine, di riuscire a creare in questi studenti un senso di diffidenza e al tempo stesso di divertimento, in quanto cominciano a divertirsi con la cultura che stanno studiando e che non appare più come un fatto assoluto. Iniziano a capire che ci sono altre cose nelle smagliature dei fenomeni culturali e così facendo crescono ironia e diffidenza, così, diffidando, sono in grado di pensare diversamente, di vedere le cose “dall’altro lato”: ecco, se riesco in questo mi sembra che il mio lavoro non sia inutile.

FERRUCCIO MASINI: 1928/1988

BIBLIOGRAFIA (ESSENZIALE)
1967: Gottfried Benn e il mito del nichilismo
1970: Itinerario sperimentale nella letteratura tedesca
1973: Dialettica dell’avanguardia. Ideologia e utopia nella
          letteratura tedesca del ‘900
1977: Brecht e Benjamin. Scienza della letteratura e
          ermeneutica materialista 
1977: Lo sguardo della Medusa
1978: Lo scriba del caos
1981: Gli schiavi di Efesto
1982: Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia del
          nichilismo
1983: Aforismi di Marburgo
1986: La via eccentrica. Figure e miti dell’anima tedesca
         da Kleist a Kafka.

Letture ulteriori (su questo Blog): 
Perché non possiamo dirci artisti
La scommessa di Robert Musil
Il magistero di Thomas Mann
Il filosofo e il calciatore (per Martin Heidegger)
Maurice Blanchot e Roberto Bazlen

(Maggio 2023)

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